«Il lato oscuro dell’individualismo è il suo incentrarsi sull’io, che a un tempo appiattisce e restringe le nostre vite, ne impoverisce il significato, e le allontana dall’interesse per gli altri e la società» (C. Taylor). La contemporaneità ha esaltato quell’autonomia e quell’individualismo dell’uomo moderno che coincide, in realtà, con una condizione di solitudine. Scrive Pavese nel 1939: «La massima sventura è la solitudine, tant’è vero che  il supremo conforto – la religione – consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La preghiera  è lo sfogo come con un amico […]. Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri. Così si spiega la persistenza del matrimonio, della paternità, delle amicizie. Perché poi qui stia la felicità, mah! Perché si debba star meglio comunicando con un altro che non stando soli, è strano. Forse è solo un’illusione: si sta benissimo soli la maggior parte del tempo. Piace di tanto in tanto avere un otre in cui versarsi e poi bervi se stessi: dato che dagli altri chiediamo ciò che abbiamo già in noi. Mistero perché non ci basti scrutare e bere in noi e ci occorra riavere noi dagli altri».

L’uomo si può conoscere e riavere solo nel rapporto con l’altro, proprio perché l’io è rapporto strutturale con un tu. A detta del grande poeta E. Montale (1896-1981) la stessa comunicazione e la scrittura sono il tentativo di entrare in relazione con il Tu, cioè con il senso, con il Mistero che emerge nella realtà. Quando Montale compone Ossi di seppia (1925) ha la percezione di vivere sotto una campana di vetro e di essere in totale disarmonia con la vita e la realtà come testimonia in molte poesie della raccolta. In Intenzioni (Intervista immaginaria, 1946) il poeta rivela: «[Scrivendo il mio primo libro] volevo che la mia parola fosse più aderente di quella di altri poeti che avevo conosciuto. Più aderente a che? Mi pareva di vivere sotto a una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. L’espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo: una esplosione, la fine dell’inganno del mondo come rappresentazione. Ma questo era un limite irraggiungibile. E la mia volontà di aderenza restava musicale, istintiva, non programmatica. All’eloquenza della nostra vecchia lingua volevo torcere il collo, magari a rischio di una contro eloquenza».