Nel settimo Cielo di Saturno si trovano le anime contemplative, tra le quali Dante incontra un gigante dell’Occidente, san Benedetto da Norcia.

La collocazione di san Benedetto nei canti del Paradiso è particolare. Lo incontriamo, infatti, nel canto ventiduesimo, a conclusione del secondo terzo della cantica. In un cammino temporale retrogrado (dai santi contemporanei a Dante a quelli coevi a Cristo) ci stiamo avvicinando all’incontro dapprima con gli apostoli e poi con Cristo e la Madonna fino alla visione finale del Dio uno e trino.

Avvalendosi della biografia di san Gregorio Magno, Dante seleziona solo alcuni aspetti della vita di san Benedetto. L’anima del Santo si presenta con queste parole: 

Quel monte a cui Cassino è ne la costa

fu frequentato già in su la cima

da la gente ingannata e mal disposta;

e quel son io che sù vi portai prima

lo nome di colui che ‘n terra addusse

la verità che tanto ci soblima;

e tanta grazia sopra me relusse,

ch’io ritrassi le ville circunstanti

da l’empio cólto che ‘l mondo sedusse.

San Benedetto narra che il monte Cairo, alle cui falde si trovava Cassino, era abitato un tempo da gente pagana fin quando lui per grazia vi portò il vangelo di Cristo che distolse la popolazione dal falso culto che la seduceva. L’anima riconosce che quanto ha compiuto non è frutto del suo merito, ma della grazia divina.

            Il Santo ha così connaturata in sé la dimensione comunitaria che, senza indugiare in dettagli autobiografici, si premura subito di indicare i suoi compagni di cammino:

 

Questi altri fuochi tutti contemplanti

uomini fuoro, accesi di quel caldo

che fa nascere i fiori e ‘ frutti santi.

Qui è Maccario, qui è Romoaldo,

qui son li frati miei che dentro ai chiostri

fermar li piedi e tennero il cor saldo.

 

Le altre anime contemplative presenti nel Cielo di Saturno sono state mosse da quella carità che fa nascere la meditazione (i fiori) e le buone azioni (i frutti santi).

            San Benedetto presenta, quindi, san Macario, san Romualdo e, infine, i monaci benedettini che hanno osservato con rigore la regola (di questi non è riportato il nome).

A proposito del primo è difficile dire con certezza a quale anacoreta si faccia riferimento, perché molti monaci portavano quel nome. I due più noti sono san Macario, detto l’Egiziano (ca 300 – ca 390), che visse per sessant’anni in astinenze nel deserto, e quello denominato l’Alessandrino, contemporaneo del precedente, che visse in penitenza nel deserto vicino ad Alessandria d’Egitto.

San Romualdo degli Onesti (951 – 1027) fu asceta e fondatore del cenobio di Camaldoli, la cui biografia è stata raccontata da san Pier Damiani nella Vita di san Romualdo (1042).

Non sarà un caso che san Benedetto ricordi due esempi di chiara santità, il primo in Oriente, il secondo in Occidente.

Il Santo rammenta qui anche l’importanza della stabilità dei monaci, da intendersi in una duplice accezione, fisica e spirituale: da un lato il voto della stabilitas prescrive ai monaci di rimanere nello stesso convento fino alla morte, dall’altro la fermezza morale e spirituale è la premessa per il cammino di santità.

            Rinfrancato dalle parole di san Benedetto, Dante ha l’audacia di manifestare chiaramente il suo desiderio di poterlo vedere in volto. Allora il Santo risponde:

[…] Frate, il tuo alto disio
s’adempierà in su l’ultima spera,
ove s’adempion tutti li altri e ’l mio.
Ivi è perfetta, matura e intera
ciascuna disianza […]

e nostra scala infino ad essa varca,
onde così dal viso ti s’invola.
Infin là sù la vide il patriarca
Iacobbe porger la superna parte,
quando li apparve d’angeli sì carca.

Tutti i desideri si compiranno solo nell’Empireo, il luogo dove si trovano realmente tutti i beati, che Dante potrà finalmente vedere in viso, mentre fino ad ora nei Cieli ha potuto contemplare solo delle luci intense.

            Le anime contemplative sono disposte a formare una scala che s’inerpica verso l’Empireo, simile a quella che Giacobbe vide in sogno, tutta gremita di angeli, simbolo del monachesimo.

Nessuno tra i monaci ormai si allontana da terra per salire la scala, nessuno segue più la regola, che è rimasta solo per sciupare la carta su cui viene scritta.

Come san Tommaso aveva denunciato la corruzione del proprio ordine (Domenicani) e san Bonaventura l’allontanamento dei Francescani dall’esempio del proprio fondatore, ora san Benedetto rimprovera i Benedettini che hanno trasformato le abbazie in spelonche di ladri, in luoghi di corruzione e di depravazione, ben distanti da san Pietro che «cominciò sanz’oro e sanz’argento», da san Benedetto che visse «con orazione e con digiuno» e da san Francesco che fondò «umilmente il suo convento».

Qual è la soluzione a questa situazione di dissolutezza morale e spirituale? Ritornare all’origine, al momento in cui tutto è nato, al fascino iniziale dell’incontro con Cristo da cui l’impeto caritatevole è sorto.

Strettesi l’una vicina all’altra, le anime contemplative salgono verso l’alto. Su invito di Beatrice Dante sale sulla scala fermandosi all’VIII Cielo, quello delle stelle fisse.

Ivi, rivolgendo lo sguardo verso il basso, il poeta contempla il cammino che ha compiuto fino a quel momento e vede la Terra, definita «l’aiuola che ci fa tanto feroci» per le cui ricchezze noi tanto ci affanniamo. A Dante appare così piccola che il poeta sorride «del suo vil sembiante».