Il richaimo di Fighera è alle millenarie verità della nostra religione, il cui abbandono ha avuto come risultati il realtivismo (non c’è nulla di fondante e di indubitabile, ma tutto è al vento del singolo e alla mercè delle tempeste ideologiche sociali), il progressismo (cui fanno da tragico contrappasso proprio i frangenti di crisi che stiamo attraversando), l’egoismo. E pensare che l’autore trae questo frontale atto d’accusa, non tanto, o quanto meno non solo, da pagine della Bibbia, da Agostino, Tommaso, paolo, o da Dostoevsij, ma anche più spesso da Leopardi, Pirandello, Camus, Kafka, e persino Van Gogh e da Munch, da Pavese e Montale, da Verga e Quasimodo e Svevo. Una costellazione di invidiabile cultura che se serve a costringere chi legge a un immediato e opportuno cambio di passo esistenziale e spirituale, sfocia in un finale capitolo di speranza. Un nuovo umanesimo che ci riproponga il coraggio di guardare alla ragione e alla fede come inesausti termini di dialogo.
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