Nel settimo Cielo di Saturno si trovano le anime contemplative, tra le quali Dante incontra un gigante dell’Occidente, san Benedetto da Norcia, nominato patrono dell’Europa nel 1964 da papa Paolo VI, in quanto fu una delle figure che maggiormente contribuirono alla realizzazione di un’unità culturale in un momento di grave crisi, quando, crollato l’impero romano d’Occidente, i popoli barbarici lo invadevano e realizzavano i loro regni.

La collocazione di san Benedetto nei canti del Paradiso è particolare. Lo incontriamo, infatti, nel canto ventiduesimo, a conclusione del secondo terzo della cantica. In un cammino temporale retrogrado (dai santi contemporanei a Dante a quelli coevi a Cristo) ci stiamo avvicinando all’incontro dapprima con gli apostoli e poi con Cristo e la Madonna fino alla visione finale del Dio uno e trino.

Nato nel 480 da famiglia benestante, giunto a Roma per completare gli studi superiori, trovando nella città dissolutezza e corruzione, Benedetto si allontanò per vivere in un luogo isolato, oggi chiamato Sacro Speco, nei pressi di Subiaco. Per tre anni combatté per controllare le tre principali tentazioni umane: l’autoaffermazione, la sensualità e il desiderio di vendetta. Passò, poi, dalla forma di vita anacoretica a quella cenobitica, divenne abate di un gruppo di monaci che, però, tentarono di avvelenarlo forse perché ritenevano la sua regola troppo rigida.

Fondò più tardi alcuni monasteri nei pressi di Subiaco e poi a Montecassino. Ivi, venivano accolti Romani, Germani, figli di schiavi e gente umile in una sorprendente unità di vita, possibile solo nella sequela dell’insegnamento del Vangelo.

Centri culturali ed economici, i monasteri divennero luoghi di scambi di prodotti e d’innovazioni tecniche. Vi si aprirono scuole per formare sia i futuri monaci che gli studenti laici attraverso l’apprendimento delle arti del Trivio e del Quadrivio. Nei monasteri venivano ospitati anche pellegrini, viaggiatori e malati nei quali si vedeva il Cristo sofferente.

Tutta la vita del monaco era scandita dalle ore di preghiera, di studio e di lavoro. L’agricoltura, l’apicultura e l’allevamento erano le attività che servivano al sostentamento dei monaci e ai bisogni del convento.

San Benedetto scrisse una regola che impose l’obbedienza, il rispetto degli orari di lavoro e di preghiera e lo spirito di fraternità. La regola, che qualificava la vita monastica come una scuola di servizio al Signore, sarebbe stata estesa più tardi sotto l’Impero carolingio a quasi tutti i monasteri dell’Europa. Leggiamo nella Regola:

 

L’abate non deve insegnare o stabilire o comandare nulla che sia fuori della legge del Signore, ma il suo comando e il suo insegnamento siano infusi nella mente dei discepoli come lievito di giustizia. […] Odi i vizi, ami i fratelli, ma anche nel correggere proceda con prudenza e senza eccessi, per evitare che, volendo raschiare troppo la ruggine, finisca spezzato il vaso. […] Il primo gradino dell’umiltà è l’obbedienza senza indugio.

L’abate deve essere ad un tempo un padre tenero, ma anche un severo maestro seguendo l’esempio del buon pastore. San Benedetto morì a Montecassino nel 547.

Avvalendosi della biografia di san Gregorio Magno, Dante seleziona solo alcuni aspetti della vita di san Benedetto. L’anima del Santo si presenta con queste parole:

 

Quel monte a cui Cassino è ne la costa

fu frequentato già in su la cima

da la gente ingannata e mal disposta;

e quel son io che sù vi portai prima

lo nome di colui che ‘n terra addusse

la verità che tanto ci soblima;

e tanta grazia sopra me relusse,

ch’io ritrassi le ville circunstanti

da l’empio cólto che ‘l mondo sedusse.

 

San Benedetto narra che il monte Cairo, alle cui falde si trovava Cassino, era abitato un tempo da gente pagana fin quando lui per grazia vi portò il vangelo di Cristo che distolse la popolazione dal falso culto che la seduceva. L’anima riconosce che quanto ha compiuto non è frutto del suo merito, ma della grazia divina.

 

Il Santo ha così connaturata in sé la dimensione comunitaria che, senza indugiare in dettagli autobiografici, si premura subito di indicare i suoi compagni di cammino:

 

Questi altri fuochi tutti contemplanti

uomini fuoro, accesi di quel caldo

che fa nascere i fiori e ‘ frutti santi.

Qui è Maccario, qui è Romoaldo,

qui son li frati miei che dentro ai chiostri

fermar li piedi e tennero il cor saldo.

 

Le altre anime contemplative presenti nel Cielo di Saturno sono state mosse da quella carità che fa nascere la meditazione (i fiori) e le buone azioni (i frutti santi).

San Benedetto presenta, quindi, san Macario, san Romualdo e, infine, i monaci benedettini che hanno osservato con rigore la regola (di questi non è riportato il nome).

A proposito del primo è difficile dire con certezza a quale anacoreta si faccia riferimento, perché molti monaci portavano quel nome. I due più noti sono san Macario, detto l’Egiziano (ca 300 – ca 390), che visse per sessant’anni in astinenze nel deserto, e quello denominato l’Alessandrino, contemporaneo del precedente, che visse in penitenza nel deserto vicino ad Alessandria d’Egitto.

San Romualdo degli Onesti (951 – 1027) fu asceta e fondatore del cenobio di Camaldoli, la cui biografia è stata raccontata da san Pier Damiani nella Vita di san Romualdo (1042).

Non sarà un caso che san Benedetto ricordi due esempi di chiara santità, il primo in Oriente, il secondo in Occidente.

Il Santo rammenta qui anche l’importanza della stabilità dei monaci, da intendersi in una duplice accezione, fisica e spirituale: da un lato il voto della stabilitas prescrive ai monaci di rimanere nello stesso convento fino alla morte, dall’altro la fermezza morale e spirituale è la premessa per il cammino di santità.

Rinfrancato dalle parole di san Benedetto, Dante ha l’audacia di manifestare chiaramente il suo desiderio di poterlo vedere in volto.