RADIO 5.9 sabato 29 febbraio ore 10. L’IO, LA CRISI LA SPERANZA.
Il Medioevo: epoca di cavalieri e di santi.
Nella lunga teoria di cavalieri medioevali ve n’è uno che incarna al contempo l’immagine del cavaliere e del santo. È san Galgano. Nato a Chiusdino vicino a Siena, per molti anni visse in maniera prepotente e violenta, finché, disgustato dalle sue azioni, non decise di conficcare la spada nella roccia, dove rimase come una croce su cui pregare, in solitudine, da eremita. In quei luoghi, alla sua morte, dopo la canonizzazione avvenuta nel 1185, venne costruita una cappella.
Nel Medioevo anche tanti sovrani, uomini potenti e capi di nazioni, sono stati proclamati santi. A santo Stefano viene fatta risalire la stessa nascita dell’Ungheria cristiana, espressione di un popolo che, nomade e lontano dalla civiltà che si era costituita nell’Europa altomedioevale discendente dai Romani e in quella bizantina che faceva riferimento a Costantinopoli, in pochi anni divenne sedentario, conobbe lo sviluppo delle città, un’organizzazione in regioni e in diocesi e la nascita delle leggi. La dinastia reale ungherese Arpad, cui appartiene santo Stefano, offrirà alla cristianità medioevale il fulgido esempio di numerosi santi.
Tutta la storia dell’umanità ci presenta l’occasione di vedere all’opera i santi, uomini dall’umanità cambiata dall’incontro con Cristo. Nel Medioevo, però, la novità assoluta è che queste figure sono percepite dalla sensibilità popolare e dalla cultura dominante come figure ideali, cui improntare la propria vita. Chiunque è chiamato alla santità e al compimento. La santità è la strada per ogni uomo, non solo di quei personaggi strani e leggendari come noi spesso consideriamo i santi. Di questo è ben cosciente l’uomo medioevale, che vede nel santo l’ideale di compimento dell’umano.
Questo spiega il motivo per cui il genere agiografico è il più diffuso nel Medioevo. Ricorderemo, qui, che una delle più floride produzioni è quella che riguarda la figura di san Francesco dal XIII secolo in poi. Ad un’impostazione in cui il santo veniva presentato in chiave edulcorata e miracolistica, che trova la sua espressione nella Legenda prima e nella Legenda secunda di Jacopo da Varagine e nel XIV secolo nei Fioretti di san Francesco, se ne contrappone un’altra più realistica riconosciuta come più veritiera e attendibile dall’ordine francescano delle origini. Di questa è l’esempio più famoso la Legenda maior di san Bonaventura da Bagnoregio. L’espressione legenda non ha il significato odierno di «fatti inventati e mitici», bensì il valore di «cose da leggersi, perché importanti». San Bonaventura è anche l’autore di uno dei trattati di mistica più celebri nel Medioevo, quell’Itinerarium mentis in deum che Dante stesso conobbe e tenne presente per la composizione della sua Commedia.
SAN FRANCESCO
L’agiografia come presenta San Francesco d’Assisi? Duplice è la tradizione. Ad un’impostazione in cui il Santo viene descritto in chiave edulcorata e miracolistica, che trova la sua espressione nella Legenda prima e nella Legenda secunda di Jacopo da Varagine e nel XIV secolo nei Fioretti di san Francesco, se ne contrappone un’altra più realistica riconosciuta come più veritiera e attendibile dall’ordine francescano delle origini. Di questa è l’esempio più famoso la Legenda maior di san Bonaventura da Bagnoregio. L’espressione legenda non ha il significato odierno di «fatti inventati e mitici», bensì il valore di «cose da leggersi, perché importanti». San Bonaventura è anche l’autore di uno dei trattati di mistica più celebri nel Medioevo, quell’Itinerarium mentis in deum che Dante stesso conobbe e tenne presente per la composizione della sua Commedia.
Ora, prima di vedere quali aspetti Dante abbia scelto per ricostruire la figura di san Francesco, gioverà brevemente ricostruirne la biografia a partire da alcuni dati essenziali.
Il santo nacque nel 1181 (o 1182) ad Assisi. Il padre, mercante di tessuti con la Francia, un certo Pietro di Bernardone, cambiò il suo nome iniziale Giovanni in Francesco in omaggio alla terra con cui intratteneva significativi rapporti commerciali. In quegli anni la regione d’Oltralpe pullulava di poemi cavallereschi che Pietro portò probabilmente con sé in Italia di ritorno dai suoi viaggi. Francesco crebbe nell’incanto di quelle terre e delle vicende eroiche di Perceval, di Lancillotto, di Tristano e nel desiderio di imitare le loro imprese.
Ad Assisi Francesco era noto come il rex iuvenum, re o capo dei giovani. Tutti erano contenti di averlo nella propria compagnia, perché era un abile e affascinante parlatore, dotato anche dei mezzi per divertirsi e divertire gli altri.
Poco più che ventenne gli si presentò la grande occasione di diventare prima soldato e poi cavaliere.
Nel 1203 partecipò alla guerra che contrapponeva Assisi a Perugia. Imprigionato, però, trascorse alcuni mesi in prigione, da cui uscì soltanto grazie al pagamento di un riscatto da parte del padre. Francesco subì un primo fallimento a cui ne seguì più tardi (1204) un altro, quando volle congiungersi alla crociata in compagnia di Gualtiero III di Brienne. La malattia, però, lo colse nei pressi di Spoleto e Francesco fu costretto a far ritorno a casa. L’ennesima delusione poneva di fronte il giovane ad una nuova sconfitta. I suoi progetti sembravano tramontare, mentre il padre si convinse sempre più della necessità di avviare il figlio alla propria attività mercantile. Forse per queste ragioni Francesco partì per Roma per adempiere ai compiti assegnatigli. Commosso dall’indigenza, Francesco decise di donare parte dei suoi averi, dei tessuti e degli abiti ai poveri.
Sulla via del ritorno, fuori dalla città natia, incontrò un lebbroso, scese da cavallo e lo baciò. In quel malato, reietto ed escluso dalla società, Francesco riconobbe il volto di Gesù.
Sempre nel 1205 o, forse, l’anno dopo Francesco sentì il crocefisso della Chiesa di San Damiano che gli rivolgeva queste parole: «Francesco, va’ e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina». Vendette uno stallone e tessuti di valore per rimetterla in sesto. Fu l’ennesimo gesto che suscitò l’acrimonia di Pietro di Bernardone che decise di convocarlo dinanzi al vescovo (autorità religiosa e civile assai importante all’epoca) e alla cittadinanza per fargli cambiare condotta. Di fronte all’ostinazione del figlio, desideroso di continuare lungo la strada di quell’inaspettata metanoia (cambiamento radicale o conversione) il padre lo diseredò. In tempi molto rapidi. Francesco lasciò tutte le sue sostanze, uscì dalla città, scalzo. Vestito solo di un povero sacco legato in vita da un capestro, iniziò a predicare con letizia la gioia del vangelo, vivendo di mendicanza. Tanti divennero i suoi seguaci cosicché il poverello d’Assisi sentì l’esigenza di redigere una regola. Francesco non voleva fondare nulla di nuovo, non aveva l’intenzione di creare un nuovo ordine. Amava soltanto Gesù e testimoniava con grande entusiasmo questo amore. La situazione gli impose, però, la necessità di dare un riferimento ai tanti compagni che avevano deciso di seguirlo in quell’affascinante avventura, non più solo ad Assisi, ma in tante città d’Italia.
Così, nel 1209 si recò a Roma per chiedere l’approvazione orale della Regola da papa Innocenzo III. All’inizio il papa non volle riceverlo. Più tardi ebbe un sogno in cui un povero mendicante sosteneva la Chiesa di San Giovanni in Laterano che stava cadendo. Il papa riconobbe in quell’umile persona il volto di Francesco, lo accolse in udienza e diede l’approvazione orale a quella regola che pur percepiva «dura et aspera». A quella data risale secondo la tradizione francescana la nascita dell’ordine francescano.
Dieci anni più tardi, Francesco si recò addirittura in Terrasanta per la gioia di testimoniare l’amore di Cristo. Venne catturato a san Giovanni d’Acri dai musulmani. Fu allora che tentò di convertire il sultano d’Egitto. L’esito fu negativo. Francesco fece ritorno in Italia.
Nel 1223 si recò di nuovo a Roma per chiedere l’approvazione scritta della regola a papa Onorio III. La bolla arrivò. Il numero dei fraticelli era ormai di alcune migliaia, sparsi in tutta Italia. Allo stesso anno risale anche il primo presepe, ad opera di Francesco.
Nell’autunno del 1224 alla Verna il poverello d’Assisi ricevette le stimmate da un serafino che gli apparve innanzi come un crocefisso.
È l’anno in cui Francesco compose il «Cantico delle creature» o «Laudes creaturarum» o «Cantico di Frate Sole» (o «Canticum Fratris Solis»), l’atto di nascita della letteratura italiana.
Prosa assonanzata e ritmata scritta nel dialetto umbro illustre, contesto di frequenti latinismi, il componimento si apre con una lode al Signore, cui si devono ogni lode e benedizione:
Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.
Dalle lodi al Creatore si passa a quelle indirizzate al creato, che è segno di Dio. Lo sguardo di san Francesco procede dall’alto verso il basso, dal Cielo alla Terra. Lo stupore del Santo è pieno di gratitudine per la presenza del Sole, della Luna e delle stelle, tutti segni chiari di Dio. Tutta la realtà parla del Creatore che ha impresso l’orma di sé ovunque:
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual’ è iorno et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et preziose et belle.
Dal cielo l’attenzione si rivolge, poi, al nostro pianeta, bello per la presenza dei quattro elementi empedoclei (aria, acqua, fuoco e terra):
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le Tue creature dài sostentamento.
Laudato sì’, mi’ Signore, per sor’acqua,
la quale è multo utile et humile et preziosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
et ello è bello, et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba.
Il Signore deve essere lodato a causa del vento, dell’aria, dell’acqua, del fuoco, della terra.
L’unico essere vivente che viene nominato nel cantico è l’uomo. L’aspetto che più lo nobilita è il perdono, di cui l’uomo è capace solo nel nome di Cristo:
Laudato sì’, mi’ Signore per quelli ke perdonano per lo Tuo amore
et sostengo infirmitate et tribulatione.
Beati quelli ke ‘l sosterrano in pace,
ka da Te Altissimo, sirano incoronati.
Il perdono è il dono più grande che ci sia stato dato e di cui, a nostra volta, possiamo omaggiare gli altri, è l’abbraccio della persona nonostante i suoi limiti e le sue mancanze. Quando non c’è una presenza amorosa che lo abbracci e che gli voglia bene, l’uomo è incapace di affrontare la realtà, è preso dal dubbio e dalla paura, che può tramutarsi in angoscia. Perché l’uomo possa vivere con entusiasmo e con baldanza deve riconoscere una presenza buona che gli permetta di rialzarsi nonostante tutti gli errori che possa compiere.
Gli ultimi versi del cantico sono stati scritti nel 1226, pochi giorni prima di morire. Per questo colpisce la certezza con cui san Francesco apostrofa la morte come sorella. Chi prima di allora l’aveva chiamata così? Essa non va semplicemente sopportata, tollerata, accettata come arrivarono ad affermare alcuni filosofi antichi. Essa va amata, perché non ci può arrecare alcun male. Solo il nostro peccato ci può rovinare, perché ci può condurre alla dannazione eterna. La morte è, invece, l’evento che fa cadere il muro d’ombra che ci dischiude all’eterno e alla visio Dei.
Così si conclude allora la poesia:
Laudato sì’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a cquelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male.
Per questo non può non scaturire in Francesco, anche in punto di morte, una profonda gratitudine:
Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.
Il 3 ottobre 1226 Francesco ritornò al Cielo. Sdraiato sulla nuda terra, nelle ultime ore aveva ricordato ai confratelli l’obbedienza, la carità, la povertà, la preghiera, l’amore del Signore. Era sera. Per questo il dies natalis, il giorno di nascita alla vita eterna, quello in cui si celebra il Santo, è il 4 ottobre.