“Bloody Tuesday”, il sanguinoso martedì. Sarà questo, molto probabilmente, il nome con cui verrà ricordata la terribile notte di Kiev fra il martedì 18 e il mercoledì 19 febbraio 2014, quando la polizia ha attaccato i manifestanti accampati in Piazza dell’Indipendenza (ormai per tutti è il “Maidan”, lo spiazzo) e lo scontro ha lasciato sul terreno 26 morti: 9 poliziotti, 1 giornalista e 16 oppositori.
Per tutta la settimana scorsa si era registrata un’insolita calma e lunedì era stata evacuata la sede del comune di Kiev, occupata dai manifestanti sin dall’inizio della protesta, nell’ultima decade di novembre. I presupposti per la fine della tensione c’erano tutti. Oltre ai manifestanti, anche il presidente Yanukovich aveva lanciato ripetuti segnali distensivi: dopo aver licenziato il governo di Mykola Azarov, ormai insostenibile, aveva concesso l’amnistia ai manifestanti, scarcerato i prigionieri, promesso la fine dell’assedio al Maidan in cambio della sua evacuazione. Non ha voluto neppure prendere in considerazione le proposte più radicali: le sue stesse dimissioni, elezioni anticipate e la scarcerazione della leader dell’opposizione democratica Yulia Tymoshenko. Qualcosa non ha funzionato nel dialogo fra sordi a cui è ridotto il negoziato fra opposizione e governo. Gli oppositori si sono sentiti traditi nel momento in cui Yanukovich ha intimato loro di abbandonare piazza e barricate. Hanno visto i preparativi delle forze dell’ordine, la concentrazione dei Berkut (teste di cuoio), equipaggiati con armi vere. Da giorni si parlava, a torto o a ragione, dell’arrivo di truppe. E i manifestanti amnistiati rimanevano, comunque, o in stato di arresto o sotto sorveglianza. In una situazione simile basta una piccola scintilla per far saltare le polveri. E le polveri sono scoppiate quando la polizia ha iniziato ad avvicinarsi alle barricate, per farle sgombrare. Dai primi scontri si è arrivati alla guerriglia urbana in men che non si dica.