Factum est di Giovanni Testori

1. Madre Teresa di Calcutta e il monologo di Testori

Madre Teresa di Calcutta indicava nell’aborto il più grave pericolo per la pace del mondo. Stupisce un’affermazione siffatta. Perché l’aborto veniva considerato dalla piccola suora dei poveri come un attentato al mondo intero, come il più grave rischio per la sopravvivenza dell’intero pianeta? Perché, risponde Madre Teresa,

 

è una guerra diretta, una diretta uccisione, un diretto omicidio per mano della madre stessa. […] Perché se una madre può uccidere il suo proprio figlio, non c’è più niente che impedisca a me di uccidere te e a te di uccidere me. Noi combattiamo l’aborto con l’adozione. Se una madre non vuole il suo bambino, lo dia a me, perché io lo amo.

 

Ci aiuta a comprendere meglio il senso dell’affermazione di Madre Teresa il dramma teatrale di Giovanni Testori (1923-1993) Factum est. Poeta, drammaturgo, romanziere e pittore milanese, Testori è un autore scomodo, spesso escluso dalle antologie scolastiche e dai canoni letterari del Novecento. È giunto il momento di allargare quei ristretti canoni letterari che chiudono il Novecento con lo studio di Calvino e di Gadda, tralasciando, guarda caso, proprio grandi autori cattolici.

Lo scrittore lombardo scrive un monologo teatrale, strutturato in quattordici parti come se fosse una via crucis. Scrive Testori:

 

Ritengo che il monologo sia la forma più alta di teatro. Tutto il teatro tragico è, in fondo, un monologo a più voci. È stato il teatro moderno, a partire dall’Ottocento, a far credere che il dramma sia nell’antitesi. Se torni ad ascoltare un grande testo tragico come l’Amleto di Shakespeare, ovviamente non è la trama che ti tenta, ma il fatto che quel testo sia un’inchiesta sul destino dell’uomo: un destino che ha sempre come riferimento l’Essere Totale, cioè Dio.

 

Nell’opera parla solo il feto, colui che nella realtà non ha diritto di parola, di espressione, di comunicazione della propria volontà. È lui che viene messo in croce, è lui il nuovo Cristo crocefisso, rifiutato, reso totalmente silente ancor prima che esca dal ventre della madre.

 

 

2. Il Verbo si è fatto carne

 

In una dinamica antitetica a quella annunciata nel vangelo di Giovanni dove «verbum caro factum est»  («il verbo si fece carne»), nell’opera la carne del feto (cui viene impedito di farsi carne al di fuori del ventre materno) si fa di volta in volta parola, profezia, maledizione. Non appena concepito, il feto grida di esultante gratitudine:

 

Grazie te, Cristo re!

Parlo qui! Sento qui!

Cuore qui, carne qui,

batte qui, grida qui!

Vita Cristo vive qui!

Casa, carne,

ventre, te. […]

Grazie, Dio,

grazie, Luce,

grazie, Te.

Ora e sempre

Vive, parla,

sangue, canta,

carne, me.

La sua gratitudine è rivolta anche al padre e alla madre, cui si sente di appartenere:

 

son di Lui,

son di voi,

madre, padre,

sono io!

Sono Lui

e lei e te!

Siamo tre! […]

Grido lieto:

sono cuore,

sono vita,

forma sono,

sono feto!

Il padre, però, non riconosce un senso, una causa e un fine a quel grumo di cellule: «caso, bacio/ questo è stato». Il feto allora reagisce rivolgendosi alla madre:

 

Madre,

mamma,

a te m’aggrappo![…]

Chi ti parla

era pur come son io!

Il feto

 

chiede di venire alla luce e s’incarna nella sua stessa parola senza corpo. Nel grembo balbetta, strascica le parole, fino a che la voce si fa più percettibile, articolata, chiedendo una salvezza per sé e una speranza per la madre e per il padre che lo vogliono rifiutare.

Nelle sue parole c’è un richiamo alla responsabilità del padre, quell’uomo che, anche se lo rifiuta, già è padre, perché il figlio è ormai concepito:

 

so, papà:

io sono peso,

peso vero;

son fatica,

son legame;

da portare

son legname;

son catena;

sono pena,

ma,

domani?

Tu la vita,

padre,

ami?

Forse un giorno

Mi vedrai

e dirai:

«lasciar lui?

Averlo mai?

Mio bambino,

vitellino,

mio gattino…».

3. Cristo di nuovo in croce

 

Una commozione ci riempie il cuore nel sentir parlare un essere così piccolo, innocente, che dapprima sembra insistere sull’affettività dei genitori, poi sul buon senso e sulla ragionevolezza, poi sembra implorare pietà, proprio come un condannato a morte. Infine, la sua voce si tramuta in maledizione e profezia di distruzione per chi osa perpetrare un tale abominio! Sono toni che ricordano la lauda drammatica «Donna de Paradiso» di Iacopone da Todi. Ivi, Cristo è imprigionato, sottoposto alla passione, crocefisso! Ancora lo «Stabat mater» di Iacopone è presente in quel «fa’ che arda,/che la bruci […]. Fa’ che spada/ sia d’amore/ che trafigga/in madre/ cuore». La Madonna rimase ai piedi della croce accanto al Figlio assassinato. Qui la madre diventa lei stessa omicida, degenere, lussuriosa. Non a caso Testori la apostrofa con un’allusione dantesca alla figura della lussuriosa Pasifae, la moglie del mitico Minosse sovrano di Creta, colei che fece costruire una vacca di legno e vi si pose dentro per unirsi carnalmente ad un toro di cui si era innamorata (dall’unione nacque il Minotauro):

 

Più che bestia

tu t’imbesti

nella bestia

-lui, lo sposo-

che t’impesta!

Il feto demistifica tutte le moderne giustificazioni dell’aborto, presentato come manifesto del diritto e della libertà della donna, quando esclama:

 

«È per vivere

– ti dici –

Per avere libertà».

Libertà

di spegner vita?

Libertà

di violar Dio?

Libertà per te

è finita.

Che comincia

è l’urlo eterno,

primavera uccisa,

inverno,

sempre gelo,

sempre brina.

Mai sarete

come prima.

Un destino di rovina attende quell’uomo e quella società che non riconosce la vita, che non l’abbraccia, dimentica del nulla che anche noi siamo stati e di quel Tutto che ci ha voluti e ci ha chiamato alla vita:

 

Cadrai tu,

rovinerai

terra che

rifiuti vita,

vita spegni

dentro ventre;

vino in sangue,

pane in carne

trasformato

uccidendo

chi non nato

esser vita

pur doveva

hai calpestato,

vomitato,

assassinato.

Nell’omicidio di un bimbo si manifesta il rifiuto di Cristo che si è fatto uomo, si palesa il rifiuto di Dio che è venuto ad abitare in mezzo a noi. L’uomo rinnega la carne della propria carne, ma non osa dirselo, non osa riconoscerlo! Un tempo, almeno, gli antichi consideravano come madre degenere quella Medea che aveva ucciso i due figli e che con l’omicidio si suicidava, rifiutava la sua stessa vita. Oggi l’uomo non riconosce più il male che compie contro di sé con il rifiuto del figlio. Per questo, a ragione, Madre Teresa vedeva nell’aborto, nel non riconoscimento del senso della nascita, il rischio più grande per la distruzione del mondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

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