La contemporaneità ha esaltato quell’autonomia e quell’individualismo dell’uomo moderno che coincide, in realtà, con una condizione di solitudine. Così scrive Charles Taylor ne Il disagio della modernità: «Il lato oscuro dell’individualismo è il suo incentrarsi sull’io, che a un tempo appiattisce e restringe le nostre vite, ne impoverisce il significato e le allontana dall’interesse per gli altri e la società». Per questo Cesare Pavese (1908-1950) annota in una pagina del suo diario Il mestiere di vivere, datata 1939: «La massima sventura è la solitudine, tant’è vero che  il supremo conforto – la religione – consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La preghiera  è lo sfogo come con un amico […]. Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri. Così si spiega la persistenza del matrimonio, della paternità, delle amicizie. Perché poi qui stia la felicità, mah! Perché si debba star meglio comunicando con un altro che non stando soli, è strano. Forse è solo un’illusione: si sta benissimo soli la maggior parte del tempo. Piace di tanto in tanto avere un otre in cui versarsi e poi bervi se stessi: dato che dagli altri chiediamo ciò che abbiamo già in noi. Mistero perché non ci basti scrutare e bere in noi e ci occorra riavere noi dagli altri». L’uomo si può conoscere e  riavere solo nel rapporto con l’altro, proprio perché l’io è rapporto strutturale con un tu.