Terminato il faticoso e triste viaggio all’Inferno, non allietato né da luci né da colori, Dante esce finalmente a «rivedere le stelle». Così pure dopo la salita per le sette balze del Purgatorio, bevuta l’acqua del Leté prima e dell’Eunoé poi, il poeta è finalmente «puro e disposto a rivedere le stelle». Infine, visitati i nove cieli, superate le tre prove sulla fede, sulla speranza e sulla carità, ricevuto l’assenso della Madonna che ha interceduto perché lui potesse vedere Dio, Dante constata che il Creatore è quell’«amor che move il sole e l’altre stelle». Ma perché il sommo poeta ha fatto terminare con la parola «stelle» tutte e tre le cantiche?

LA VIA DELLA BELLEZZA

Uno dei più probabili etimi del termine vuole che «stelle» significhi «sparse o disseminate per il padiglione del Cielo». Il potere delle parole è grandissimo, gli etimi illuminano il passato e il futuro della realtà, nomen deriva da omen che significa destino, augurio, presagio. «Nomina sunt consequentia rerum» dicevano gli antichi ovvero i nomi sono conseguenza della realtà. Le stelle sono state create e disseminate da Qualcuno nel cosmo, nell’universo (parola che indica che tutto è rivolto nella stessa direzione o ad uno solo, a Colui che ha dato inizio a tutto). È come se nella parola «stelle» ci fosse già una provocazione, ovvero il sorgere di una domanda: chi le ha generate, chi ce le ha donate?

Nello spettacolare canto primo del Paradiso Beatrice risponde a questa domanda quando spiega a Dante che «Le cose tutte quante/ hanno ordine tra loro, e questo è forma/ che l’universo a Dio fa somigliante». La guida afferma, poi, che, in realtà, tutte le cose sono belle nella loro misura: «Ne l’ordine ch’io dico sono accline/ tutte nature, per diverse sorti,/ più al principio loro e men vicine». Ciò vuol dire che c’è qualcosa che è eminentemente bello, ma, in ultima istanza, tutta la realtà è bella, perché in essa c’è l’impronta di Dio. Siamo noi che, spesso, non siamo in rapporto giusto con la realtà, perché altrimenti coglieremmo la sua bellezza, come afferma san Tommaso.

È quello che comprende un genitore quando vede un figlio commettere magari un’azione negativa, ma nei suoi confronti prova sempre un sentimento di amore e coglie la bellezza del suo animo.

È quello che racconta anche Antoine De Saint-Exupery ne Il piccolo principe. Quando vede che ci sono altre rose, il principino si sente un po’ tradito perché era convinto che la sua fosse la sola rosa e che fosse bellissima perché era l’unica. A quel punto è chiamato a riconoscere che la sua rosa è bella ed unica per lui perché lui le ha dedicato del tempo.

La bellezza è la forma che rende l’universo simile a Dio. Possiamo anche dire che la bellezza è segno di Dio. Esiste, cioè, una via pulchritudinis, una «via della bellezza». Essa è un metodo, una strada che porta verso il Cielo, che ci conduce a riconoscere Dio. Tutta la realtà o, se vogliamo usare l’espressione bellissima di Dante, tutto «il gran mare dell’essere» tende verso l’ordine, verso la perfezione, verso Dio. L’ordine e le leggi che lo scienziato scopre nell’universo sono segno e sigillo dell’impronta che Dio vi ha impresso. Gli studi scientifici portano, così, ad approfondire la maestosità del Mistero che ci sovrasta e, nel contempo, a sorprendere la bellezza dell’armonia del cosmo. Insomma, ancora una volta Dante ci fa comprendere la verità delle parole di san Tommaso: «credo ut intelligam» (credo per comprendere meglio) e «intelligo ut credam» (comprendo e vado in profondità della realtà per accrescere la fede).

BEATRICE, LO STUPORE E IL DESIDERIO

Che cosa c’entrano le stelle con l’uomo? Ancora Beatrice ci viene in soccorso: «Qui veggion l’alte creature l’orma/ de l’etterno valore, il qual è fine/ al quale è fatta la toccata norma». L’uomo, che è alta creatura, è l’unico che sa cogliere la bellezza e stupirsi di fronte a lei. Questa è per Dante una delle peculiarità dell’essere umano: la meraviglia di fronte al bello. Che cosa suscita la bellezza in noi? Di fronte alla bellezza la prima reazione è uno stupore, che ci fa rimanere estasiati, in contemplazione, come quando ascoltiamo una musica bella o contempliamo la Cappella Sistina di Michelangelo. Nel momento in cui noi cerchiamo di definire la bellezza, noi già la stiamo deturpando o, in un certo senso, corrompendo, perché siamo presi come da un desiderio di possesso della bellezza stessa.

C’è una parola che descrive bene il rapporto dell’uomo con le stelle ed è la parola «desiderio», composta dalla prefissazione «de» che indica in latino la mancanza e dal sostantivo «sidus» ovvero «stella»: desiderio indica quindi la mancanza delle stelle, potremmo anche dire la nostalgia delle stelle. Proveniamo dalle stelle e desideriamo ritornare a loro, proprio noi uomini che siamo «humus» (terra) come indica bene l’etimo.

È anche vero che oltre all’etimologia consolidata della parola «desiderio» potremmo anche suggerirne un’altra: «de sideribus» ovvero dalle stelle. Il desiderio proviene dall’alto, dal cielo. L’animo di ogni uomo è attratto dalla bellezza, dalla bontà, dall’amore, dalla felicità. Proprio questo è il significato della frase biblica «Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza». Nel canto XVI del Purgatorio Marco Lombardo spiega a Dante: «Esce di mano a lui che la vagheggia/ prima che sia, a guisa  di fanciulla/ che piangendo e ridendo pargoleggia,/ l’anima semplicetta che sa nulla,/ salvo che, mossa da lieto fattore,/ volentier torna a ciò che la trastulla». Ovvero l’anima umana, semplice, quando esce dalle mani del Creatore si comporta come una bimba che ride o piange infantilmente, non sa nulla salvo che torna con gioia verso ciò che le dà letizia. Come una bimba che, ignara di tutto, sempre ritorna nelle braccia della madre, così l’anima umana si muove verso il bello, il vero, il bene, in poche parole verso quel Dio che l’ha creata. Come un oggetto di ferro che è attirato da una calamita, così il nostro cuore trova una totale corrispondenza nell’amore e nel bene.

L’uomo aspira, quindi, alle stelle, ma anche se le possedesse tutte, non sarebbe mai sazio. Leopardi chiama questa percezione d’incompiutezza e insoddisfazione «noia». Essa è «in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani,… il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile della spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo umano e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo» (Pensieri, LXVIII). La noia è il sentimento che denuncia in maniera inconfondibile la statura umana, l’aspirazione all’infinito del nostro animo, la sua incapacità di accontentarsi di piaceri finiti e limitati, la necessità di incontrare un piacere infinito che corrisponda al proprio cuore.

LA STELLA PER RITROVARE LA STRADA

Perché allora accade spesso che l’uomo si corrompa, decada e si soffermi solo su beni effimeri? Perché l’uomo è libero e fragile. Spiega Beatrice alla fine del canto I del Paradiso: «Vero è che, come forma non s’accorda/ molte fïate a l’intenzion de l’arte,/ perch’a risponder la materia è sorda,/ così da questo corso si diparte/ talor la creatura, c’ha podere/ di piegar, così pinta, in altra parte». Talvolta, il marmo non risponde al progetto dell’artista. Il fuoco tende verso il Cielo, prosegue ancora la donna filosofa, eppure si vedono i fulmini che scendono verso Terra. La nostra anima è come una freccia scagliata da Dio a bersaglio, ma che ha la libertà di cambiare direzione.

Quando noi ci purifichiamo, però, il nostro sguardo tende a sollevarsi verso l’alto. E allora anche gli astri diventano guide. Nel racconto evangelico la stella cometa diventa la guida dei Magi verso il Signore dell’universo: «Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino» (Matteo 2,9).  Il nomen ha adempiuto il suo omen, una stella disseminata nel Cielo ha accompagnato i Magi al Re di tutto, a Colui che l’ha creata. (pubblicato su IL TIMONE, dicembre 2017)