Eugenio Montale (1896-1981) è uno dei più grandi poeti nel panorama internazionale del Novecento. Il valore della sua sterminata produzione che attraversa gran parte del secolo scorso (dalla prima raccolta del 1925 fino alle ultime sillogi degli anni Settanta) viene consacrato con il Premio Nobel per la letteratura che il poeta conseguì nel 1975. Eppure, come tanti altri scrittori del Novecento, anche Montale, diplomatosi ragioniere, fu autodidatta.

Per il poeta nativo di Genova e amante del mare ligure (la famiglia aveva una casa a Monterosso) la comunicazione e la scrittura sono il tentativo di entrare in relazione con il Tu, cioè con il senso, con il Mistero che emerge nella realtà. In Intenzioni (Intervista immaginaria, 1946) il poeta rivela: «Mi pareva di vivere sotto a una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. L’espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo: una esplosione, la fine dell’inganno del mondo come rappresentazione. Ma questo era un limite irraggiungibile. E la mia volontà di aderenza restava musicale, istintiva, non programmatica. All’eloquenza della nostra vecchia lingua volevo torcere il collo, magari a rischio di una contro eloquenza».