Di colui che è stato uno dei più grandi poeti italiani contemporanei si leggono e si studiano i componimenti legati alla morte del padre («X agosto», «La cavallina storna») o quelli che descrivono la campagna («Novembre», «Lavandare», «Arano», «L’assiuolo») o la natura («Temporale», «Tuono», «Lampo») o ancora quelli che vagheggiano la dimensione del ricordo dell’infanzia e della famiglia («L’aquilone», «Digitale purpurea», «Suor Virginia»).

La critica si è soffermata sul simbolismo e sull’impressionismo della sua scrittura (Romano Luperini) o sull’ibridismo del linguaggio pregramatticale (commisto di onomatopee come «fru fru fra le fratte») e di quello postgrammaticale (specialistico o gergale come nei versi «un ribatte la porca con sua marra paziente»).

Ha rintracciato nella sua poesia i legami con il simbolismo francese della seconda metà dell’Ottocento e vi ha intravisto le anticipazioni di tanta produzione del ventesimo secolo. Non si contano i saggi di critica letteraria che hanno perlustrato la scrittura pascoliana da un punto di vista tecnico.

Di rado, però, gli studiosi di Pascoli si soffermano sulla domanda religiosa che anima le sue raccolte. A scuola la situazione non è certo diversa. Quale studente ha potuto leggere poesie come «La felicità», «La grande aspirazione», «La vertigine», testi in cui l’uomo è descritto come desiderio e capacità di infinito?

Chi ha sentito nominare quei componimenti in cui Pascoli palesa la sua fede e la sua esperienza di incontro con Cristo, ad esempio «L’angelus», «L’Avemaria» o la sezione dei Poemi conviviali «La buona novella»?

Pascoli riecheggia Leopardi non solo nel titolo di alcune poesie (si pensi a «Il passero solitario») o nella poetica della rimembranza (nella prefazione ai Primi poemetti Pascoli scrive: «Il ricordo è poesia e la poesia non è se non ricordo»), ma anche nella considerazione e nella stima dell’uomo come «capacità di infinito».

A differenza della bestia, che si accontenta soltanto di soddisfare il bisogno fisico, l’uomo ha una «grande aspirazione», come recita il titolo di una bellissima poesia di Pascoli che scrive: «Un desiderio che non ha parole/v’urge, tra i ceppi della terra nera/e la raggiante libertà del sole.//Voi vi torcete come chi dispera,/alberi schiavi! Dispergendo al cielo/l’ombra de’ rami lenta e prigioniera,/e movendo con vane orme lo stelo/dentro la terra, sembra che v’accori/un desiderio senza fine anelo».

Il poeta è come un cieco, come già appare nella poesia «Il cieco» (tratta dai Primi poemetti), un uomo che sa di non sapere, che si chiede donde venga e dove vada, che si domanda chi possa ascoltare il suo pianto e comprendere il suo dolore. Allora la parola del cieco si fa preghiera che il Mistero possa entrare in rapporto con l’uomo: «Chi che tu sia, rivela/ chi sei: dimmi se il cuor ti si compiace/ o si compiange della mia querela! […] Chi che tu sia, che non vedo io, che vedi/ me, parla dunque: dove sono?».