La formazione, la consacrazione internazionale, l’oscurità
Scrittrice fecondissima, una delle più prolifiche (trecentocinquanta novelle, trentacinque romanzi oltre che poesie), Grazia Deledda (1871-1936) era convinta che non sarebbe mai riuscita «ad avere il dono della buona lingua», come rivela giovanissima allo scrittore Enrico Costa, a causa dell’influsso troppo forte della cultura e del dialetto sardi. La Deledda si forma con cura sulle grandi opere classiche (Bibbia, poemi omerici), sugli autori della tradizione italiana (da Tasso a Manzoni), sui contemporanei, dai romanzieri francesi (Hugo, Balzac) ai russi (Tolstoj, Dostoevskij) agli italiani (D’Annunzio, Fogazzaro, Verga). Conosce anche la produzione di un’altra grande poetessa italiana, nata l’anno prima (1870), quell’Ada Negri, che sarebbe anche lei sprofondata, dopo la grande fama in vita, in un precoce oblio. «Le sue predilette frequentazioni […] stanno nella sua esperienza più come un fatto vissuto che come un fatto letterario» (Emilio Cecchi). Anche Verga, che è autore di quello che a torto o a ragione è considerato il secondo più grande romanzo dell’Ottocento italiano, quei Malavoglia che ottennero un successo di critica e non di pubblico, senz’altro è un riferimento importante per la scrittrice sarda. In realtà, però, le differenze tra la Deledda e Verga sono notevoli.