maturità 2013Maturità 2013. Prosegue il viaggio di tempi.it in preparazione dell’Esame di Stato. Dopo Giovanni Pascoli, Gabriele D’AnnunzioLuigi Pirandello, Italo SvevoGiuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Umberto Saba, Salvatore Quasimodo, Italo Calvino e Giuseppe Tomasi di Lampedusa oggi parliamo di Cesare Pavese.

 

La vita

 

Nato a Santo Stefano Belbo nelle Langhe nel 1908, Cesare Pavese studia Lettere all’Università di Torino ove ha come maestro Augusto Monti e stringe amicizie che saranno poi determinanti nella sua formazione e nell’attività editoriale e letteraria successiva. Un suo amico Giulio Einaudi fonda l’omonima casa editrice di cui Pavese diventerà prima collaboratore e successivamente anche direttore e con cui pubblicherà tutti i suoi romanzi. La sua vocazione alla scrittura è viva e feconda fin da giovane, già dai tempi universitari e da quando, una volta laureato, si dedica anche all’insegnamento. Nel 1935 viene confinato per un anno a Brancaleone calabro, accusato di collaborare con gli antifascisti. Ritornato a Torino, scopre che Tina Pizzardo, la «donna dalla voce rauca» di cui è innamorato, si è sposata con un altro uomo. Grande è la delusione. La sua produzione si converte sempre più dalla poesia alla prosa, in un’attività instancabile che lo porta al più grande riconoscimento italiano, il conseguimento del Premio Strega (1950) con La bella estate, scritta nel 1949. Il 1950 è anche l’anno del suo più noto romanzo, La luna e i falò. Il 27 agosto 1950 Pavese si suicida in una camera d’albergo a Torino.

 

 

I romanzi

La contemporaneità ha esaltato quell’autonomia e quell’individualismo dell’uomo moderno che coincide, in realtà, con una condizione di solitudine. Così scrive Charles Taylor ne Il disagio della modernità:«Il lato oscuro dell’individualismo è il suo incentrarsi sull’io, che a un tempo appiattisce e restringe le nostre vite, ne impoverisce il significato e le allontana dall’interesse per gli altri e la società». Per questo Cesare Pavese (1908-1950) annota in una pagina del suo diario Il mestiere di vivere,datata 1939: «La massima sventura è la solitudine, tant’è vero che  il supremo conforto – la religione – consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La preghiera  è lo sfogo come con un amico […]. Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri. Così si spiega la persistenza del matrimonio, della paternità, delle amicizie. Perché poi qui stia la felicità, mah! Perché si debba star meglio comunicando con un altro che non stando soli, è strano. Forse è solo un’illusione: si sta benissimo soli la maggior parte del tempo. Piace di tanto in tanto avere un otre in cui versarsi e poi bervi se stessi: dato che dagli altri chiediamo ciò che abbiamo già in noi. Mistero perché non ci basti scrutare e bere in noi e ci occorra riavere noi dagli altri». L’uomo si può conoscere e  riavere solo nel rapporto con l’altro, proprio perché l’io è rapporto strutturale con un tu.