Sul finire del Settecento Vincenzo Monti immortala in un’ode la grandezza di quel signor di Mongolfier che ha permesso finalmente di realizzare il sogno di Icaro: volare, elevarsi dal suolo e sorvolare i mari e le montagne. Nel XIX secolo i segnali della fiducia smisurata nella tecnologia e nella meccanizzazione conseguente alla Rivoluzione industriale diventano sempre più palesi nella produzione letteraria. Carducci esalterà il progresso nell’immagine della locomotiva che permette di viaggiare sempre più velocemente. La velocità diventerà un mito della contemporaneità. «Citius. Altius. Fortius», cioè sempre più veloce, più in alto, più forte. Battere ogni record, superare ogni ostacolo, risparmiare sempre più tempo per non sapere poi come utilizzarlo o disfarsene in maniera futile. Le automobili e i primi aerei saranno mezzi d’eccezione in possesso dei superuomini dannunziani, malati di protagonismo e di narcisismo. I futuristi vedranno nella macchina il segno della forza e della modernità, la possibilità di sradicarsi da un passato tradizionalista e vetusto in nome di un presente foriero di novità. Nel Manifesto futurista pubblicato sul quotidiano francese Le figarò il 20 febbraio 1909 Tommaso Marinetti afferma di voler cantare «l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità». La letteratura esalterà d’ora innanzi «il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno» al posto dell’«immobilità penosa, l’estasi ed il sonno». La forza, la lotta, la guerra sola «igiene del mondo», l’aggressività, «le locomotive dall’ampio petto, il volo scivolante degli aeroplani» diventano la novità su cui fondare il nuovo mondo moderno. Non c’è alcuna traccia di riflessione critica sui cambiamenti repentini che stanno toccando la società del tempo.