La vita ha la durata di una giornata, questa è la percezione che si ha quando si arriva al termine.
In maniera significativa la novella Una giornata, comparsa su «Il Corriere della Sera» il 24 settembre 1935, conferì il titolo alla quindicesima e ultima raccolta delle Novelle per un anno pubblicata postuma nel 1937. È l’unico caso in cui è l’ultima novella, e non la prima, a dare il titolo all’intera raccolta. Alla stessa silloge appartiene anche La Signora Frola e il Signor Ponza, suo genero.
Un passeggero di un treno si trova al termine della corsa, «strappato dal sonno, forse per sbaglio, e buttato fuori dal treno in una stazione di passaggio». Il treno è subito ripartito. Il passeggero vorrebbe far reclamo. Ma per che cosa?
Questo viaggio rappresenta la vita che ti fa scendere dal treno senza che tu abbia la consapevolezza di essere giunto alla meta, di essere arrivato al capolinea.
Se nelle epoche passate il viaggio come metafora della vita veniva descritto a piedi o in nave (nell’Odissea o nel Fedone o nell’Eneide), ora Pirandello si avvale di un mezzo di trasporto che rappresenta la modernità: il treno. Non è il primo autore a descriverlo nelle opere letterarie (si pensi a Carducci), come del resto non è l’unica opera di Pirandello in cui esso compare. Basti pensare a Il treno ha fischiato.
Il passeggero non sa quando sia partito, quale sia la meta e se porti con sé qualcosa. Si sente come trascinato per le vie della città. Si chiede:
“Possibile però ch’io sia già tanto cresciuto, rimanendo sempre come un bambino e senz’aver fatto mai nulla? Avrò forse lavorato in sogno, non so come. Ma lavorato ho certo; lavorato sempre, e molto, molto”.
Viene salutato da tanti che lo conoscono, anche se lui non sa chi siano. Poi gli sorge il sospetto che salutino quell’abito e non lui. E lui addosso non ha altro che quell’abito.
Cercando nell’abito il passeggero trova una busta di cuoio dentro alla quale vi sono un’immagine di una bella e giovane fanciulla e un biglietto di banca piegato in quattro. Chi è quella ragazza e di chi sono quei soldi? Il protagonista non riesce a ricordare.
Si ferma a mangiare in una trattoria dov’è trattato come un ospite di riguardo. Lì, scopre che la moneta di carta è di grande valore, ma è uscita fuori corso da tempo. Il padrone della trattoria lo accompagna allora nella vicina banca dove tutti sono lieti di cambiargli il denaro e gli danno tanti soldi. Ritorna alla trattoria, dove trova un autista che l’aspetta, lo fa entrare nell’automobile e l’accompagna a casa.
Il protagonista vi entra, non ricordando nulla di quella bellissima casa antica, dei mobili e sentendosi estraneo, «come un intruso». La casa gli sembra deserta, come all’alba gli appariva la città. Trova la camera da letto illuminata e sul letto la giovane fanciulla della foto «con le due braccia nude vivacemente levate» che lo accolgono festanti. Sembra un sogno. All’alba, la ragazza non c’è più su quel letto che è divenuto «gelato, come una tomba».
“E c’è in tutta la casa quell’odore che cova nei luoghi che hanno preso la polvere, dove la vita è appassita da tempo, e quel senso d’uggiosa stanchezza che per sostenersi ha bisogno di ben regolate e utili abitudini”.
Il sogno si trasforma sempre più in un incubo. «Come può essere sua quella casa?» si chiede il passeggero. Per avere la prova che sia solo un sogno, va a guardarsi ad uno specchio appeso alla parete e subito ha «l’impressione d’annegare, atterrito, in uno smarrimento senza fine». Si vede vecchio e, attonito, si chiede: «Io, già vecchio? Così subito? E com’è possibile?».
All’improvviso gli annunciano che sono arrivati i suoi figli: si presentano all’uscio e appaiono già adulti. Entrano. Vi sono anche dei bambini: i nipoti. Lo trattano tutti come una persona che non sta bene e lo invitano a sedersi. Una volta sedutosi, lui li guarda, gli sembra che gli stiano facendo «in sogno uno scherzo. Già finita la mia vita?». Tutt’a un tratto spuntano i capelli bianchi anche ai figli e i nipoti, avvicinatisi alla poltrona, sono già divenuti grandi.
Gli viene l’impeto di alzarsi in piedi, ma non riesce più a farlo. E rimane a guardare «con tanta tanta compassione» i suoi «vecchi figliuoli».
Il passaggio del tempo ha consunto tutto, ha trasformato i volti e le cose, rendendole quasi irriconoscibili. L’uomo sembra estraneo ad una vita di cui, in ultima analisi, non è stato mai protagonista, ma spettatore.
La paura più profonda dell’uomo è quella di non vivere davvero, di arrivare al termine e di rendersi conto che non si è goduto il sapore dell’esistenza.