Mario Baudino sulla Stampa di pochi giorni fa ha sottolineato l’importanza della riedizione dei Canti di Leopardi nella traduzione di Jonathan Galassi in un inglese moderno (per la casa editrice Farrar, Strauss & Giroux). Come ha scritto il poeta Peter Campion sul New York Times ora «Leopardi può diventare importante per la nostra letteratura come Baudelaire o Rilke». Ciò significa che finalmente Leopardi può entrare nella memoria e nella tradizione letteraria americana diventando così occasione di confronto, di spunto e di genesi artistica. Ma è sufficiente continuare a studiare Leopardi e ritradurlo perché il grande poeta esca dall’infausta fama che l’ha accompagnato e che l’accompagna ancor oggi, dall’accusa di pessimismo che grava su tutta la sua opera? Anche nell’ultima fatica di Pietro Citati intitolata Leopardi ed edita da Mondadori si legge che nel cuore della giovinezza del Genio recanatese «un sistema di malattie si impadronisce del suo organismo[…]; il sentimento, l’entusiasmo si dileguano; l’infelicità umana è irrimediabile. Non gli resta che sopportare».  La tradizione critica vuole che Leopardi in maniera scettica e titanica abbia combattuto contro la natura, mai arrendendosi, ma si sia arreso al desiderio di felicità. Una lettera scritta  all’amico belga Jacopssen nel giugno del 1823, la poesia «Alla sua donna», l’operetta morale «Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez» sono solo alcune tra le tante e incontestabili prove che la domanda di felicità non è venuta meno in Leopardi anche nei momenti di maggiore sconforto. Su questo, però, tornerò in seguito.

Ma cosa può dire Leopardi alla civiltà occidentale e all’America di oggi? In un mondo in cui sembrano dominare l’homo oeconomicus, che pensa a soddisfare i suoi bisogni e i piaceri, e l’homo technologicus, che provvede a fare e a realizzare sempre meglio, Leopardi riporta in primo piano l’unico uomo che sia veramente tale, che non sia bestia e gregge. Quell’homo religiosus con le sue domande sulla vita e sul destino, che permangono oggi come un tempo con tutta la loro urgenza di risposta e che riecheggiano con potenza nei versi del «Canto notturno» quando il poeta si rivolge alla Luna: «Ove tende/ Questo vagar mio breve,/ Il tuo corso immortale? […] Che fa l’aria infinita, e quel profondo/ Infinito sereno?[…] E io che sono?».