
Nel piccolo idillio «La sera del dì di festa», dopo aver descritto una situazione paesaggistica rasserenante, correlato antifrastico alla sua interiorità, Leopardi ritorna con la mente alla donna incontrata quella domenica che gli ha aperto «una piaga» «in mezzo al petto». La donna senz’altro avrà riposo dopo i trastulli della festa; il poeta, invece, non riesce a trovar conforto né tanto meno serenità. Il ricordo, la rimembranza, troppo freschi perché possano trasfigurare le delusioni e le disillusioni della giornata, diventano qui strumenti euristici, quindi di acquisizione della cruda verità e della sofferenza che al poeta sembra siano dati in sorte. La consapevolezza della caducità della vita, dell’aspetto effimero e passeggero dei momenti, anche dei più belli, fanno sì che si percepisca un fondo di tristezza: anche il momento lieto sembra esserci dato per un lasso di tempo troppo breve, ogni cosa porta in sé il marchio dell’effimero. Scrive Leopardi: «E fieramente mi si stringe il core,/ A pensar come tutto al mondo passa,/ E quasi orma non lascia».
Leopardi è ben cosciente che il problema della vita è che neanche uno dei nostri capelli vada perduto, che gli istanti belli e brutti, più o meno solenni, siano salvati: altrimenti è il dominio della tristezza e dell’angoscia, anche nel momento in cui ci sembra di toccare il cielo. La riflessione sul vissuto personale si tramuta qui in una meditazione più universale, che riprende sia il tema dell’
ubi sunt classico sia quello veterotestamentario del libro di
Qoèlet: «Or dov’è il suono/ Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido/ De’ nostri avi famosi, e il grande impero/ Di quella Roma […] / Tutto è pace e silenzio, e tutto posa/ Il mondo, e più di lor non si ragiona». Leopardi non trova risposta a queste domande. Unica consolazione, certo misera, lasciarsi andare a ricordi più lontani, quelli dell’infanzia, quando il poeta, terminato il giorno festivo, la notte provava un simile senso di tristezza e di dolore e, faticando a prender sonno nel letto, sentiva un canto in lontananza, che moriva a poco a poco. È lo stesso canto che Leopardi ode ora, non più fanciullo: «Ahi, per la via/ Odo non lunge il solitario canto
/ Dell’artigian, che riede a tarda notte,/ Dopo i sollazzi, al suo povero ostello». Il canto è termine caro al Leopardi che non a caso intitolerà l’intera raccolta delle poesie proprio
Canti. È una delle espressioni umane che meglio indicano il desiderio, l’anelito di felicità. Nell’operetta morale «Elogio degli uccelli», l’autore si spingerà al paradosso di affermare che gli uccelli sono forse le uniche creature viventi felici, proprio perché cantano in continuazione e effondono la loro gioia anche per le altre creature.