altA Dante piacciono i richiami interni, le coincidenze numeriche, mai casuali. Se nel canto III dell’Inferno era sorto il dubbio sull’infinita bontà e misericordia di Dio, dopo aver letto l’epigrafe sulla porta («Giustizia mosse il mio alto fattore;/ fecemi la divina potestate,/ la somma sapienza e ‘l primo amore»), nella cantica successiva, Dante sente l’esigenza di spiegare e argomentare, di rispondere alle possibili e plausibili domande dei lettori. Così il dubbio sorto nel lettore nel canto III dell’Inferno, viene ora dissolto nel III del Purgatorio.

Come la ragione umana ha spesso la presunzione di misurare la realtà e di giudicare lo stesso Dio, così la giustizia umana spesso condanna l’uomo senza preoccuparsi di capirne il cuore, si lascia andare ad un’accusa dell’individuo senza limitarsi ad evidenziare il peccato.

Emblematico è il caso del principe Manfredi, nato nel 1232, figlio dell’imperatore Federico II e di Bianca dei Conti Lancia di Monferrato. Morto il padre nel 1250, Manfredi diventa principe di Taranto e, poi, per qualche anno reggente del Regno di Sicilia per conto del fratellastro Corrado IV. Sarà nominato successivamente vicario della Chiesa in Puglia e Basilicata, ma, poco più tardi, si farà aperto nemico della Chiesa tanto che verrà scomunicato. I ghibellini sconfiggono a Montaperti le forze guelfe anche grazie alla cavalleria di Manfredi nel 1260. È Carlo d’Angiò a guidare la riscossa dei guelfi e di Firenze contro i ghibellini e Siena nella battaglia di Benevento del 1266. Ivi Manfredi muore in combattimento. Per l’atteggiamento che ha tenuto per anni nei confronti di papato e chiesa, tutti credono che sia sprofondato all’Inferno. Lo stesso vescovo di Cosenza (con il placet di Papa Clemente IV) fa cercare il suo corpo, che, una volta ritrovato, viene trasferito in terra sconsacrata fuori dal Regno (cioè fuori dallo Stato della Chiesa).