Se la realtà è più ricca di ogni pensiero umano, sarà anche sorgente di ispirazione per ogni discorso o fatto artistico. Tutta l’arte e l’ispirazione dantesche nascono da questa acuta capacità di osservazione dell’umano sentire, delle passioni, delle gioie e delle sofferenze. Davvero a Dante si addicono le parole dell’antico latino Terenzio: «Sono uomo, nulla di ciò che è umano reputo a me estraneo». Non c’è aspetto che venga bandito, non c’è debolezza che non meriti ospitalità nella sua produzione quale espressione di quest’essere miserabile, ma, nel contempo, grandioso che è l’uomo. Dante è ben conscio che qualsiasi espressione artistica, anche quella che riguarda il mondo soprannaturale, per eccellenza il luogo non rappresentabile, debba rifarsi al reale.

Quando ci deve rappresentare gli argini che delimitano l’orribile sabbione del girone dei sodomiti nel cerchio VII dell’Inferno, dove sono puniti i violenti, Dante richiama al lettore la visione degli argini costruiti da mani umane: «Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,/ temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,/ fanno lo schermo perché ’l mar s’avventa,/ e quali Padoan lungo la Brenta,/ per difender lor ville e lor castelli,/ anzi che Carentana il caldo senta:/ a tale imagine eran fatti quelli,/ tutto che né sì alti né sì grossi,/ qual che si fosse, lo maestro félli».