Nell’Inferno Dante utilizza sia il registro tragico che quello comico. Le tragedie dantesche sono rappresentate dalle storie dei grandi personaggi, Francesca da Polenta, Pier della Vigna, Ulisse, il conte Ugolino della Gherardesca. Tutti ricorderanno i versi tombali che concludono i loro lunghi monologhi: «Quel giorno più non vi leggemmo avante» (Francesca), «Poscia, più che il dolor, poté il digiuno» (conte Ugolino), «Infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso» (Ulisse), «ciascuno al prun de l’ombra sua molesta» (Pier della Vigna). Il registro alto e tragico ben si adatta a quei personaggi dannati che il poeta stima, in qualche modo, perché eroici per la loro virtù.

Nell’Inferno la dimensione del comico è molto presente, nelle sue differenti sfaccettature, dal comico puro al grottesco, dalla satira alla parodia. Manca l’umorismo, che tende ad abbracciare e a comprendere (ricordiamoci l’esempio di Pirandello riguardo alla donna anziana, tutta imbellettata). E ne capiamo bene le ragioni. I dannati sono ormai fissati in una condizione definitiva, che non può più essere redenta. Hanno perso la dimensione tragicomica dell’umano (espressione pirandelliana per designare l’aspetto umoristico di ogni uomo sulla Terra), la multiforme e mutevole condizione esistenziale e di loro rimangono solo il peccato a cui hanno aderito e il male compiuto.