Pochi giorni fa mi telefona una ex-studentessa per comunicarmi che avevano ritrovato morta in un parco di Milano Camilla, mia allieva diplomatasi al Classico nel 2004. L’autopsia darà il responso più prevedibile: è stato fatale per lei il cocktail di alcool e droga. Si può morire a soli ventiquattro anni di tristezza, di solitudine nel tentativo di far tacere in ogni modo quell’«abisso di vita» che sentiamo in noi, quell’esigenza di amore, di affetto, di felicità che è quasi insostenibile quando ci si sente da soli!
Ad aprile un altro ex-studente della scuola di Milano dove insegnavo anni or sono, Stefano, muore in un incidente in moto. Ricordo ancora quando mi disse: «Sa professore, ho visto un film, Notte prima degli esami, che mi ha fatto capire perché valga la pena vivere. Un personaggio del film sostiene che nella vita è importante non quanto troviamo alla fine della strada, cioè il Destino, ma l’emozione che abbiamo provato lungo la strada».
Morire a vent’anni di troppo desiderio di vita o, forse, morire a vent’anni perché nessuno ci ha mai detto perché valga la pena davvero faticare, alzarsi al mattino, prendersi le proprie responsabilità, far famiglia, …