Fontane, giochi d’acqua, piazze e mirabolanti fuochi d’artificio, metafore ardite e iperboliche espressioni: siamo nel Seicento, secolo del Barocco.
Dirà Giambattista Marino, denominato «vero re del secolo» da Francesco de Sanctis, che «della poesia il fin è la meraviglia». L’arte, nel complesso, deve stupire, sia che il poeta voglia scrivere il poema più esteso che la letteratura ricordi (Marino comporrà l’Adone di ben quarantacinquemila versi sviluppando un mito che Ovidio aveva raccontato nelle Metamorfosi in soli settanta stichi) sia che, partendo dalla semplice metafora delle «onde dorate» (i capelli della donna amata), decida di costruire un intero sonetto sul virtuosismo retorico e ricercato della navigazione e del naufragio finale in quel mare.
La poesia diventa, così, il luogo privilegiato della novità, tutta protesa a rovesciare i luoghi comuni petrarcheschi: è il dominio della musicalità (madrigali e canzoni vengono preferiti ad altre forme metriche).
Il brutto e il bizzarro, l’insolito e il complicato, il lugubre e il macabro, la concretezza e la fisicità, la sensualità e il realismo non hanno certo come fine il giovamento morale, né tanto meno il diletto e il piacere: il fine, come dicevamo, è lo stupore, la meraviglia.
L’artista barocco non imiterà la natura, ma la ricostruirà usando il potente strumento della fantasia: eliminati i modelli, le regole, la poetica di Aristotele, prevale la libertà di espressione.