La poesia “Alla sua donna” è carica di una dignità umana grandissima, è carica di quell’attesa e di quella domanda che si traduce nella preghiera (perché di preghiera si tratta) che l’Infinito si faccia sperimentabile. Non ne diamo qui la parafrasi, ma una sorta  di rapida sintesi seguendo l’ordine delle stanze.

Leopardi  chiede alla bellezza, a quella bellezza che traluce dal paesaggio naturale o dall’etereo volto di una donna, dove abiti, dal momento che al presente è difficile afferrarla o vederla: forse nell’età dell’oro, in un mitico passato, o in un futuro di cui a noi non è dato godere?

L’unica speranza per il poeta è quella di percorrere un sentiero nuovo, diverso da quelli fino ad allora percorsi e di incontrarla, così come spesso Leopardi sperava da giovane. Questa bellezza è quanto di più grande l’uomo possa immaginare in terra: è la Bellezza con la “b” maiuscola, l’Ideale.

Se qualcuno la amasse, la sua vita sarebbe più felice, sarebbe come quella che nel cielo “india”, cioè porta a Dio; se l’amasse, l’uomo cercherebbe la virtù, la bontà.

Al poeta (più in generale l’uomo), privato della Bellezza, basterebbe anche solo conservarne l’immagine in mezzo agli affanni della vita quotidiana.

L’ultima stanza è una preghiera rivolta alla Bellezza, all’Ideale. Leopardi lo apostrofa invocandolo a ricevere, ad accogliere  quest’inno, sia nel caso in cui viva nell’iperuranio come una delle Idee platoniche, sia nel caso in cui viva  nei cieli superiori, lontano da noi. È il desiderio che l’Ideale, il Bello, l’Infinito sia qui tra noi, possa essere esperienza “di qua dove son gli anni infausti e brevi”. È la preghiera che il Bello si faccia carne, possa assumere forma umana.