Efficacemente il Cardinale Ratzinger coniò l’espressione «dittatura del relativismo» per definire la cultura contemporanea. Non più certezze cui guardare, ma un’unica certezza, quella che non vi sono verità. All’evidenza delle cose si è sostituito il dubbio applicato a tutto, almeno a livello teorico. A livello pratico, infatti, la demolizione del criterio di conoscenza per fede porterebbe al rapido ritorno all’età della pietra, ogni uomo dovrebbe ripercorrere tutte le tappe del passato se non desse credito alle acquisizioni ereditate. Sul piano tecnico scientifico, spesso il criterio del dubbio non viene invece applicato, anzi talvolta si applica l’ideologia scientista dimentica del vero metodo sperimentale. Così, si propagano teorie o tesi magari ancora non dimostrate.

Sul piano umano, religioso e metafisico, invece, il dubbio è esteso ad ogni campo, investe ogni aspetto del reale. Di fronte al dubbio generalizzato l’uomo non sa più come affrontare l’avventura del reale. All’eroe antico, Oreste, che con decisione si vuole vendicare della morte del padre si sostituisce Amleto, un uomo preso dal dubbio sulla realtà e sull’evidenza delle cose, inerte, incapace di agire, di operare. Come scrive Pirandello, il suo sguardo, tutto rivolto allo strappo nel cielo di carta, non può più rivolgersi al reale[1]. Allora una sonnolenza, una pigrizia, un’inerzia investono la vita umana.

Il relativismo culturale dal campo della conoscenza ha investito nel tempo il campo etico. In assenza del bene e del male, ogni azione umana è arbitraria e soggettiva, cioè valutabile esclusivamente a partire da criteri personali del soggetto che l’ha compiuta. L’azione non è più buona in sé, ma in relazione al fine e agli obiettivi che chi la compie si è prefissato.

Il passaggio dal relativismo gnoseologico ed etico a quello estetico è immediato. Se bello, buono e vero coincidono, in mancanza di un bene e di un vero oggettivi, anche il bello perde uno statuto di esistenza[2].

La gaia disperazione di un uomo senza Dio

 

All’epoca degli antichi Greci la mancanza di certezze, di divinità buone conduceva ad una serietà nella vita da cui sarebbero nati gli eroi antichi, uomini che, pur nel dolore e nel dramma della vita, si ponevano in modo dignitoso di fronte alla vita e al destino. La tragedia antica è l’esito più maturo di questa percezione dell’uomo avversato dalla fortuna e dalle divinità, disperato, cioè senza speranza. Quella antica è, però, una disperazione seria, titanica, profonda, che potrebbe essere ben espressa con le parole dello scrittore contemporaneo F. Kafka (1883-1924): «Se la salvezza c’è, voglio esserne degno». L’uomo antico è profondamente religioso e in tutti i modi cerca di indagare il destino, il mistero, il significato.

Quella di oggi è, invece, una gaia disperazione, propria di un uomo che, pensando di poter fare a meno di Dio, deve anche dimenticarsi del destino. Vuole vivere sereno,  tranquillo, ottimista, anche se senza ragioni di speranza. Quanta distanza separa l’uomo contemporaneo dalla serietà dell’uomo greco!

 

 


[1] Si sta facendo, qui, riferimento al famoso discorso di Anselmo Paleari ne Il fu Mattia Pascal relativo all’uomo antico, incarnato da Oreste, e l’uomo moderno, rappresentato da Amleto. Se Oreste vedesse uno strappo nel cielo di carta, mentre si sta vendicando della morte del padre, la sua sicurezza si tramuterebbe in dubbio e inerzia. Per un approfondimento della questione si veda G. Fighera, La bellezza salverà il mondo, Ares, Milano 2009, pp. 28-31.

[2]La sinteticità dell’argomentazione è dovuta al fatto che già in G. Fighera, La bellezza salverà il mondo, cit si è argomentato il passaggio al relativismo etico ed estetico nei capitoli II e III.