fighera-felicita-amicoIl genio di Leopardi descrive molto bene la società contemporanea, che propone la cultura della distrazione, dell’evasione e dell’assopimento dell’io. Ma, come scrive Leopardi, «solo chi non ha smesso di desiderare la propria felicità, può ancora volere la felicità altrui».
Pubblichiamo un capitolo del libro
Che cos’è dunque la felicità, mio caro amico? di Giovanni Fighera (qui il suo blog su tempi.it). Il volume, già uscito nel 2008, è stato rieditato dalla casa editrice AresQui trovate la prefazione di monsignor Luigi Negri e uno stralcio del primo capitolo.

Capitolo settimo
Il divertissement la moltitudine dei piaceri

 

Nell’operetta morale “Dialogo di Malambruno e Farfarello” Malambruno, dopo aver chiesto la felicità al demone e aver ottenuto una risposta negativa, desidererebbe almeno togliere l’infelicità. Farfarello risponde che ciò è impossibile a meno che non smetta di volersi bene. Per Leopardi la benevolenza per sé presuppone la non saturazione del proprio animo, del proprio cuore, così come è fatto, nel suo desiderio infinito di felicità, nel suo status ontologico, perché altrimenti si rinnegherebbe quel desiderio di amore e di felicità infinito. Se ciò che ci procura tristezza è la domanda che sembra non trovare appagamento, è sufficiente smorzare la tensione di questa attesa, del desiderio per stare, solo apparentemente, meglio.

Ecco perché un assopimento dell’animo è, in generale, piacevole, perché consiste in uno stordimento della ragione, in un annebbiamento delle domande del cuore.

“Il desiderio del piacere diviene una pena, e una specie di travaglio abituale dell’anima. Quindi… un assopimento dell’anima è piacevole. I turchi se lo procurano coll’oppio, ed è grato all’anima perché in quei momenti non è affannata dal desiderio, perché è come un riposo dal desiderio tormentoso, e impossibile a soddisfar pienamente; un intervallo come il sonno nel quale se ben l’anima forse non lascia di pensare, tuttavia non se n’avvede”.