Intervista in occasione del Meeting di Rimini 2009

Rivali- Come è nata l’idea di scrivere un libro sulla felicità?
Fighera- Pirandello affermava che o si vive o si scrive. Io penso che si scriva perché si vive, ovvero si scrive quando accade qualcosa. C’è sempre un’occasione spinta, come diceva Montale. Ho scritto Che cos’è dunque la felicità, mio caro amico?  in seguito a quanto è successo tre anni fa in una scuola milanese. Ero docente di Italiano e Latino in un Liceo classico. Il Preside mi assegnò l’ora alternativa alla Religione in una classe che per la maggior parte non faceva Religione.Mi disse: “Peggio per loro, così faranno più Religione degli altri”. La prima volta che vidi i ragazzi chiesi loro che cosa si aspettassero dall’anno scolastico, più in generale dalla scuola e dalla vita. Le risposte furono le più diverse, ma in un certo  senso scontate: la ragazza o il ragazzo, la macchina, diventare qualcuno, fare i soldi , il motorino… Allora chiesi loro se non fosse più bello, più umano, più corrispondente al cuore desiderare la felicità, senza ridurre il desiderio di felicità che noi abbiamo, senza etichettarlo o sostituirlo con palliativi. I ragazzi rimasero sorpresi da questa provocazione e mi chiesero di affrontare la questione della felicità durante l’anno. Bene, fu un anno molto intenso, dove lavorammo con i testi di grandi letterati e con film, in un continuo confronto.

Quell’anno, poi, ricordo,  era il 2006, uscì il film di G. Muccino La ricerca della felicità. Una ragazza mi chiese di vedere assieme quel film che le era molto piaciuto. Lo guardammo tutti insieme. Esposi ai ragazzi le mie forti perplessità. La trama riguarda, infatti, un uomo che ha un sogno, quello di diventare broker, persegue questo sogno con tutte le forze e alla fine raggiunge il suo obiettivo. La trama risente molto dell’idea molto americana del self made man, l’uomo che si fa da solo. Il protagonista, interpretato da Will Smith, incarna una figura affabile, piacevole e socievole. Alla fine raggiunge il suo obiettivo e trova la felicità. Se le cose stanno così, la felicità è una questione per pochi. Non tutti, infatti, possiedono le caratteristiche del protagonista del film, quindi non tutti concretizzano i propri sogni. Ma, aggiungiamo, quante volte abbiamo sperimentato che, anche quando abbiamo raggiunto i nostri obiettivi, un senso di vuoto e di tristezza si impadronisce presto di noi. Che cos’è questa tristezza?  Allora, ho deciso di reimpostare il problema umano, partendo dalla natura del cuore e il desiderio infinito di felicità, per passare poi alle risposte illusorie che l’uomo si dà e alla testimonianza di uomini, grandi letterati, che hanno documentato l’esperienza dell’incontro con un’umanità diversa che ha cambiato loro la vita.

Rivali- Perché sei partito da Leopardi che nella tradizione scolastica e critica è quasi sempre presentato come un autore pessimista e negativo? Cosa c’entra Leopardi con la felicità? E fin dove arriva questo autore?

Fighera- Leggere un autore è un po’ come incontrare una persona, conoscerla. Si deve leggere tutta la produzione di un autore, non come si fa oggi solo una parte antologica.  Quando si legge si deve interrogare l’autore, porgli delle domande, partire dalle domande del proprio cuore e vedere come lo scrittore le affronta o trova risposta. Bene, in questo senso la mia lettura di Leopardi mi ha fatto incontrare un autore completamente diverso da quello che spesso la scuola mi aveva presentato. Il fulcro dell’opera di Leopardi non è il pessimismo, la tristezza, ma la ricerca della felicità. Nello Zibaldone Leopardi scrive che la noia è il sentimento più sublime degli esseri umani, è desiderare l’infinita mole dell’universo, tutto il cielo stellato e percepire che tutto è piccolo e piccino per la capacità del nostro animo. Il nostro cuore è desiderio di infinito. Nulla ci può bastare. Così, quando noi desideriamo un cavallo (il cavallo era un po’ come la Ferrari di oggi), scrive ancora Leopardi, l’attesa di quel cavallo è bella e ci fa pensare che saremo felici. Quando poi siamo entrati in possesso del cavallo, ben presto un senso di insoddisfazione si impadronisce di noi. Come mai? Leopardi dedica tanta parte della sua vita e dei suoi scritti all’analisi e alla comprensione dell’animo umano. C’è un’operetta morale che si intitola “Dialogo di Malambruno e di Farfarello” in cui Leopardi mette a tema il desiderio infinito di felicità. Il dialogo è una sorta di Faust in formato tascabile. Malambruno convoca addirittura le potenze del male per poter essere felice. Gli appare un demonietto, Malambruno. Farfarello gli chiede di concedergli la felicità. Allora il demone gli risponde che è impossibile. Farfarello allora pretende la presenza di diavoli più potenti. Ma Farfarello replica affermando che nessun demone potrebbe soddisfare quel desiderio. Allora Malambruno chiede di togliergli almeno l’infelicità. Anche questo è impossibile, risponde Farfarello, perché l’uomo dovrebbe smettere di amarsi, cioè dovrebbe cessare di desiderare la felicità.
L’operetta è emblematica dell’incessante ricerca dell’uomo, quell’incessante ricerca che Leopardi descrive in un’altra operetta morale, il “Dialogo tra Pietro Gutierrez e Cristoforo Colombo”. Qui, Cristoforo Colombo rappresenta l’uomo che viaggia alla ricerca della terra, ovvero della verità, della felicità. In questo caso il messaggio di Leopardi è estremamente positivo, perché i segni che una terra c’è sono molti ed evidenti. Quindi, conviene continuare a viaggiare. Eppure,  i libri di testo non parlano mai di questi segnali positivi presenti nell’opera di Leopardi.
La dimensione dell’animo umano è attesa di compimento, come magistralmente il Recanatese ha sottolineato nella poesia “A Silvia”. Tutta la produzione di Leopardi è animata da questa ricerca inesausta di felicità, dalla demistificazione delle risposte illusorie che l’uomo spesso si dà e da alcune intuizioni geniali, come quella presente nella poesia “Alla sua donna”. In questa canzone Leopardi intuisce che se l’uomo ha un desiderio di felicità infinita, l’unica possibilità per raggiungere la felicità è quella di incontrare qualcosa di infinito. Leopardi arriva ad affermare che se l’uomo amasse il Bello (l’Ideale), allora sarebbe felice e la sua vita sarebbe come quella “che nel ciel india”. Se leggiamo la poesia nella sua interezza, cogliamo la dimensione di preghiera. Leopardi invoca l’Infinito perché si epifanizzi, si manifesti. Mai Leopardi fu così vicino al cristianesimo.

Rivali- Quali altri autori hai trovato sullo stesso piano di Leopardi riguardo alla domanda di felicità? Puoi farci qualche esempio?

Fighera- I grandi geni quando sono veri con se stessi giungono a percepire la statura dell’animo umano e la sua necessità di imbattersi in qualcosa di infinito che possa felicitarci. Dante  nel viaggio della Commedia sta sprofondando nella selva oscura, quando ad un certo punto vede un colle luminoso, la verità. Allora pensa di poter salire da solo. Dante rappresenta tutti noi che quando siamo in difficoltà o in crisi, vorremmo fare da soli. Prevale il desiderio di affermare la propria autonomia, la propria indipendenza dagli altri (è il peccato originale). Dinanzi a Dante si presentano, però, tre fiere che gli impediscono il cammino e Dante sprofonda nuovamente nella selva. Scrive Dante: “Mentre ch’io rovinava in basso loco dinanzi a li occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio parea fioco”. Solo un imprevisto, gratuito, immeritato, può salvarci la vita. Bisogna incontrare qualcosa che noi non avevamo previsto, messo in conto, progettato. Il discorso sulle affinità tra Dante e Leopardi potrebbe andare avanti. Ma preferisco passare ad altri grandi.
Il desiderio di infinito di Leopardi (noia) richiama “l’abisso di vita” del Miguel Manara. All’inizio dell’opera di Oscar Milosz il protagonista è triste, nonostante abbia tutte le donne che vuole. I suoi amici lo ammirano e pensano che sia felice. Manara però si rattrista ancor più perché non è capito nemmeno da chi dovrebbe conoscerlo. Lui ha cambiato tante donne alla ricerca dell’amore vero senza trovarlo fin quando non incontra Girolama. Questo è l’inizio della storia vera del Don Giovanni raccontata da Oscar milosz.
Manzoni rappresenta la condizione dell’uomo nel capitolo finale dei Promessi sposi con l’immagine dell’uomo infermo, che è sdraiato su un letto scomodo, con delle lische e bernoccoli. L’infermo continua a guardare il letto altrui vedendolo più bello e comodo. Vorrebbe cambiare letto fin quando non ci riesce, ma scopre che il nuovo letto in cui è finito è ancora più scomodo e allora vorrebbe ritornare nella situazione di partenza. L’uomo è sempre insoddisfatto della propria situazione, così guarda con invidia alla condizione altrui fin quando non scopre che gli altri stanno magari peggio di noi. Allora, conclude Manzoni, converrebbe “pensare a fare bene, non a star bene, e forse si inizierebbe a stare meglio”. Del resto anche la conclusione dei Promessi sposi è meravigliosa. A scuola, però, non si studia mai. Nessuno studente, anche se afferma di aver letto tutto il romanzo, si ricorda come si concluda il romanzo. Andate a rileggere le ultime quattro pagine del capitolo XXXVIII dove è presentato il “sugo della storia”.

Rivali- Nel tuo libro compaiono molti altri poeti e letterati, non solo quelli che ora hai citato. Che cos’è per te la poesia? Che poesia è possibile oggi?

Fighera- Amleto dice ad Orazio: “Ci sono più cose in cielo e in terra di quante non se ne sognino nella tua filosofia”. La realtà è cioè più ricca di ogni immaginazione. Ogni arte e ogni discorso sull’umano dovrà sempre partire dal reale. Da qui scaturisce la mia idea di arte realistica. Mi spiego meglio. L’arte e la poesia partono sempre dallo sguardo attento del reale. Non basta, però, la realtà. Ci vogliono anche lo stupore e la meraviglia per il Mistero dell’Essere che emerge dal reale. Ovvero l’arte nasce dal cuore di un uomo che palpita di fronte  al Mistero, nasce da un uomo che contempla la bellezza del reale e la rappresenta. Come diceva Manzoni il poeta “inventa” nel senso etimologico del termine, cioè trova nel reale le orme lasciate da Dio. Ecco perché la poesia e l’arte più in generale sono legate alla bellezza.
La poesia nasce sempre da qualcosa che capita, da un fatto, da un avvenimento, da un incontro. La poesia, quindi, racconta, costruisce, intesse. C’è sempre un’occasione spinta nella genesi di un testo, come direbbe Montale. La dimensione del racconto è una delle cose più belle della vita. Pensiamo ai bambini che vogliono sempre sentire i racconti. Anche i ragazzi apprendono tutto quando l’insegnamento è posto nella dimensione del racconto. La grande poesia oggi è ancora possibile come poesia epica, sacrale, narrativa, secondo la linea di Dante e Eliot. Una poesia che sia epifania, sorpresa nel cogliere nel reale i segni del divino. Poesia come racconto e testimonianza.
Il vero poeta è, perciò, filosofo, come direbbe Leopardi, o artefice come ha scritto Papa Giovanni Paolo II nella “Lettera agli artisti”, non crea, ma è immagine di Dio (questa considerazione vale più in generale per ogni uomo). L’artista di oggi pretende di creare e genera così mostri.
Oggi, purtroppo, l’arte si è slegata da tempo dalla bellezza e dalla forma. Pensate che nell’epoca classica il termine stesso di “forma” era sinonimo di “bellezza”. L’arte di oggi è per lo più informale. La contemporaneità ha smarrito l’idea di arte di un tempo, legata al Bello, al Vero, al Buono. L’oggetto artistico è considerato semplice comunicazione. Ognuno di noi può essere artista. La conseguenza è che se tutti siamo artisti, nessuno è più artista. Il paradosso è che l’arte di oggi non riesce più a trasmettere, a comunicare proprio perché ha perso la forma. Occorrono così gli interpreti, i critici che diventano i custodi sacri dell’arte. I nostri decenni hanno assistito al trionfo del trash in ogni campo.

Rivali- Colgo l’occasione, allora, per anticipare che hai scritto un nuovo libro sulla bellezza La bellezza salverà il mondo. Puoi anticipare la struttura e il percorso del nuovo libro?

Fighera- Nel testo parto dalla constatazione del brutto che imperversa in ogni campo, da quello culturale a quello etico a quello estetico. Il brutto ha contagiato ogni ambito. Cerco di capire le cause di questa manifestazione del brutto, cerco di ricostruire il contesto relativistico contemporaneo. Mostro, poi, come siamo vittime di un inganno costruito dalla contemporaneità, l’inganno secondo il quale l’arte sia semplicemente comunicazione di sentimenti o di pensieri. L’arte di oggi è legata all’idea, all’ideologia, alle mode artistiche, al poetere, al denaro, più in generale al sistema. I critici o gli artisti appiccicano i contenuti a delle forme che di per sé spesso non rappresentano nulla. Non c’è più lo stupore di fronte all’incontro con qualcosa di bello, non c’è più la magia dell’incontro. Mancano l’estasi e la contemplazione di fronte al bello, trionfano l’analisi e la critica. L’analisi è sempre una corruzione dell’originale stupore di fronte all’arte. Non è mai stato così, come abbiamo detto prima. Nel libro, allora, faccio un passo indietro mostrando che cosa la tradizione ci indichi come arte (un rapido excursus dalla tradizione classica  a quella medioevale a quella moderna). Imposto poi la questione di una educazione al bello. Che cosa è bello davvero? Qual è il legame tra bellezza e uomo, tra arte e realtà, tra bellezza e ogni ambito della vita? Mi chiedo ad esempio se la bellezza sia fondamentale per l’uomo, per la civiltà, per la scienza. Come ci si può educare alla bellezza? Alla fine mi chiedo se esista un Bello con la “b” maiuscola, un Bello che possa davvero salvare la vita dell’uomo, già da questo momento. “Quale bellezza salverà il mondo?” si chiede Dostoevskij. A questa domanda cerco di rispondere nel libro.

Rivali- Come si può oggi educare alla bellezza?

Fighera- L’educazione al bello riguarda l’educazione più in generale. Oggi a scuola ci sono tante educazioni, non si capisce che esiste un’educazione che riguarda e tiene insieme tutti gli ambiti. Occorre un maestro che ci introduca alla realtà con uno sguardo positivo. Dante scrive nel canto III:

E poi che che la sua mano a la mia puose
con lieto volto ond’io mi confortai
mi mise dentro a le secrete cose.

Il maestro ci accompagna, prendendoci per mano, con uno sguardo lieto, positivo. Io non potrò educare un altro se nel contempo non educo me stesso. Non potrò mai appassionare un ragazzo nella lettura di una poesia se non sono io il primo ad essere colpito per la bellezza del testo. Quando entro in classe cerco sempre di mostrare il senso di quello che spiego, perché un autore possa parlare alla nostra umanità, cerco di raccontare che cosa mi abbia colpito di lui. Leggere significa in primo luogo incontrare qualcuno, interrogarlo su alcune questioni. Se non si legge un testo con una domanda, la lettura non potrà mai interessarci davvero, non potrà mai coinvolgere tutto il nostro io. L’educazione al bello è un percorso, un cammino che comporta un sacrificio, uno strappo, in una società come quella attuale in cui siamo bombardati dal brutto, dal tutto è relativo, dal “a me piace questo, a te quello”. Pensiamo alla cappella Sistina. Chi non rimane colpito di fronte all’affresco? Non lo capisce magari, ma la prima movenza del bello è la contemplazione estatica, lo stupore. Come quando ascoltiamo la sinfonia 40. Allora il bello esiste. Dobbiamo rieducarci a coglierlo. Dobbiamo educarci a giudicare il brutto. Dobbiamo vagliare tutto, ma trattenere ciò che è buono. La dimensione estetica non riguarda gli artisti, gli intellettuali, riguarda tutti noi. La dimensione del bello concerne la dimensione ontologica e la dimensione etica. Il bello è anche buono. Lo capiscono i bambini che usano in maniera interscambiabile i termini “bello” e “buono”. La dimensione del bello è fondamentale per la vita di ogni uomo. Questo è il motivo per cui ho deciso di scrivere un libro sulla bellezza, perché essa c’entra con la nostra felicità. Solo il Bello muove davvero.