Imprecazioni, buio, angoscia,oppressione, assenza di quel Dio che non è mai nominato all’Inferno, semmai indicato solo con una perifrasi: sono tutti caratteri che connotano sia la rappresentazione dantesca come le rivelazioni private. Dante commina pene particolari ai dannati a seconda della colpa commessa seguendo il criterio del contrappasso per analogia o per contrasto. Similmente si esprime s. Faustina Kowalska quando afferma che l’anima è punita all’Inferno con il senso con cui ha peccato. Lungi dall’affermare di aver inventato tutto, Dante, al contrario, ha più volte asserito di aver avuto una visione dell’Oltremondo. La posterità non ha mai preso troppo sul serio la sua attestazione di aver visto l’aldilà. Ma i toni che lo scrittore assume, le affermazioni dell’ineffabilità e dell’incapacità ad esprimere quanto visto, la tenacia con cui lo scrittore continua nella sua missione di poeta e profeta, la convinzione e l’energia inesausta profuse mai smentiscono, a nostro avviso, l’affermazione che la Commedia sia opera scaturita da una reale esperienza mistica. Certo, la fantasia dantesca potrebbe aver, poi, tradotto in una molteplicità di situazioni e di personaggi una visione magari non così variegata e complessa. Poi, Dante presenterà nel Paradiso una visione dell’universo comprensibile solo dagli astronomi del Novecento. Questa somiglianza tra la visione cosmologica dantesca e le tesi contemporanee su big bang ed espansione dell’universo sembrerebbe avallare l’esperienza mistica di Dante o comunque una particolare rivelazione concessa al Fiorentino.
Appena varcata la soglia segnata dall’epigrafe infernale,
[…] sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,[…]
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta.
Quando Dante giunse presso «la triste riviera d’Acheronte», le anime
bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ‘l loco e ‘l tempo e ‘l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
Gli ignavi nell’antiinferno corrono dietro ad un’insegna senza mai fermarsi, loro che in vita non scelsero mai né il bene né il male. Punti da mosconi e vespe, perdono sangue che diventa nutrimento per i vermi, gli esseri più infimi, proprio loro che sulla terra non avrebbero mai dato la vita per nulla.
A seguire, incontriamo le anime di coloro che son «sospesi», la cui unica pena è quella di non poter mai vedere Dio, le anime del Limbo, cui Dante riserva il miglior trattamento. Tra questi filosofi, letterati, magnanimi che vissero prima di Cristo e non conobbero la rivelazione si respira l’aria dei Campi Elisi virgiliani. È opportuno ricordare che il limbo non appartiene alla tradizione cristiana, ma è stato introdotto dalla fantasia popolare.
Trascinati da una bufera che mai non ha sosta, a somiglianza del vento delle passioni che non seppero incontrare in vita, i lussuriosi sono più volte paragonati ad uccelli che volano in un’aria cupa e di colore «perso» (cioè scuro). Immortale è quell’inscindibile connubio di anime, Paolo e Francesca, che ci ricorda come peccare in amore sia tanto facile proprio perché tutti noi vogliamo amare.
Cerchio terzo. Acqua sporca, grandine, fango sono riservati proprio ai quei golosi che vissero come degli animali, «sconoscenti» della verità e del vero senso della vita.
Nel quarto cerchio avari e prodighi voltano massi «a forza di poppa» (cioè col petto) compiendo un tragitto semicircolare senza alcuno scopo, in maniera similare alla pena di Sisifo, a ricordo dell’inane fatica con cui hanno ammassato beni e ricchezze quando ancora erano nel dolce mondo. Le due schiere si insultano, scontrandosi, ricordando la pena che hanno commesso in vita.
La palude stigia che abbraccia la città di Dite accoglie con le sue acque le anime degli iracondi (e forse anche degli accidiosi): in vita non seppero trattenere l’ira, ora, una volta morti, sono sott’acqua e sono costretti a trattenere la rabbia.
La drammatica opposizione dei demoni è sconfitta dall’arrivo dei messo angelico e Dante può accedere alla città di Dite. Dapprima gli appare un cimitero spettrale di tombe scoperchiate, sormontate ai bordi da piccole fiammelle, pena per quanti furono eretici.
Nella zona successiva (settimo cerchio, primo girone), il Flegetonte con le sue acque iniettate di sangue accoglie i violenti contro il prossimo. I suicidi (secondo girone) sono trasformati in piante formando una selva ove corrono, inseguiti da cagne fameliche, gli scialacquatori delle proprie sostanze. In un sabbione incandescente, colpiti da una pioggia di fuoco, in parte giacciono supini, in parte corrono continuamente o siedono all’intorno quanti si sono macchiati di violenza verso Dio (o direttamente contro di Lui o contro natura o contro l’arte).
Si apre, in seguito, la parte più bassa, più sconosciuta dell’Inferno, quell’ottavo cerchio di Malebolge che da solo occupa per numero di canti un terzo dell’intera cantica. In dieci bolge o sacche sono stipate le anime di quanti hanno ingannato gli sconosciuti.
Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge.
Nel dritto mezzo del campo maligno
vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
di cui suo loco dicerò l’ordigno.
La fantasia di Dante si concreta, qui, in multiformi manifestazioni. I ruffiani e i seduttori vengono sferzati con scudisci da demoni cornuti, pena forse similare a quella cui erano sottoposti ruffiani e prostitute in quell’epoca. Immersi nello sterco gli adulatori si percuotono con le loro stesse mani. I simoniaci sono collocati a testa in giù in fori che richiamano i fonti battesimali medioevali e la pianta dei loro piedi è baciata dal fuoco. Gli indovini, che vollero in vita prevedere il futuro, camminano ora con la testa rivolta all’indietro. Riferendosi a loro, scrive Dante:
Mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra ‘l mento e ‘l principio del casso,
ché da le reni era tornato ‘l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché ‘l veder dinanzi era lor tolto.
I barattieri sono immersi nella pece bollente, guardati a vista da demoni che con forconi ne impediscono la fuga. Il grottesco contrappasso tocca a quanti si sono macchiati della pena di cui venne accusato Dante quando, di ritorno dall’ambasciata a Roma presso Papa Bonifacio VIII, trovandosi ormai a Siena, seppe di essere stato accusato in contumacia e condannato a pagare una multa, che sarà commutata poi in pena di morte se solo fosse ritornato nel territorio fiorentino. Gli ipocriti camminano lentamente ricoperti di cappe di piombo dorate all’esterno. I ladri corrono in una bolgia piena di serpenti, con le mani avvinghiate dietro la schiena. I consiglieri di frode sono avvolti da fiamme a forma di lingua, simbolo di quell’inganno che loro perpetrarono di nascosto, spesso grazie all’uso della parola. I seminatori di discordia sono orrendamente sfigurati, sbrindellati, con le viscere sovente penzolanti fuori dal corpo. Uno spettacolo macabro e raccapricciante è quello che si mostra a Dante sia per la condizione dei dannati che per il loro numero.
S’el s’aunasse ancor tutta la gente
che già, in su la fortunata terra
di Puglia, fu del suo sangue dolente
per li Troiani e per la lunga guerra
che de l’anella fé sì alte spoglie,
come Livio scrive, che non erra,
con quella che sentio di colpi doglie
per contastare a Ruberto Guiscardo;
e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie
a Ceperan, là dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo:
e qual forato suo membro e qual mozzo
mostrasse, d’aequar sarebbe nulla
il modo de la nona bolgia sozzo.
L’oscenità e la brutalità della guerra sono qui descritte attraverso il furore distruttivo dell’odio e della cecità umana che, dimentichi dell’universale figliolanza con Dio, portano a deturpare e a distruggere la dimensione della corporeità che andrebbe salvaguardata con rispetto e consapevolezza dell’umana precarietà. Non sarà un caso se Dante utilizza per questi dannati un registro orrido che tende a sfumare nel volgare e nel comico, segni del disprezzo per chi pone l’odio, la vendetta e il sangue come legge della realtà, al posto dell’amore. Figura che colpisce per l’obbrobrioso aspetto è quella di Bertran de Born, trovatore celebre per le poesie dedicate all’esaltazione della guerra. Ora,
‘l capo tronco tenea per le chiome,
pesol (sospeso, pendulo) con mano a guisa di lanterna.
I falsatori di metalli (tra cui anche gli alchimisti) si lamentano per gli atroci dolori provocati dalle malattie, si trascinano nella bolgia, ammassati e costipati come in un ospedale al culmine di un’epidemia; grattandosi per le croste, anziché attenuare la sofferenza, accrescono il fastidio. Scrive Dante:
ciascun menava spesso il morso
de l’unghie sopra sé per la gran rabbia
del pizzicor, che non ha più soccorso;
e si traevan giù l’unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie
o d’altro pesce che più larghe l’abbia.
Qui nella decima bolgia sono collocati anche i falsatori di moneta tra cui ve n’è
un, fatto a guisa di leuto […].
La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con l’omor che mal converte,
che ‘l viso non risponde a la ventraia,
faceva lui tener le labbra aperte
come l’etico fa […].
L’ultimo cerchio è quello dei traditori nei confronti della patria, degli ospiti, dei parenti e dei benefattori. Non il fuoco, ma il ghiaccio rappresenta icasticamente la pena comminata a quanti, a causa del tradimento, hanno perso il loro stesso calore vitale, hanno violato la stessa natura umana, sono così cosificati, reificati, immersi nel ghiaccio come se fossero «festuca in vetro».