La raccolta Vita dei campi, pubblicata nel 1880, presenta come tratto distintivo una spiccata sicilianità, che si manifesta in passioni forti, in gelosie che portano a duelli o addirittura all’omicidio, in paesaggi pieni di vita o assolati nella canicola estiva, negli abitanti popolani che abitano i paesi della costa o dell’entroterra, dediti alla pastorizia o all’agricoltura o alla pesca. Il lettore viene introdotto in medias res attraverso l’uso di un linguaggio particolare che si avvale di termini siciliani italianizzati, di proverbi dell’isola e di aspetti linguistici tipici del parlato. Con la regressione e l’uso del discorso indiretto libero Verga riesce, infine, a trasmettere l’impressione dell’impersonalità della narrazione. Lo scrupolo dell’oggettività del racconto non impedisce che nelle novelle sia forte anche la dimensione simbolica, tipica di un mondo ancestrale dove in un alone mitico e immutato nel tempo si incontrano storie particolari che incarnano valori, passioni e vizi di sempre.
Nella prima edizione della raccolta del 1880, pubblicata da Treves, compaiono otto novelle: «Cavalleria rusticana», «La lupa», «Fantasticheria», «Jeli il pastore», «Rosso Malpelo», «L’amante di Gramigna», «Guerra di Santi», «Pentolaccia». Risulta escluso, rispetto all’edizione attuale, il racconto «Il come, il quando e il perché», ritenuto dall’autore non omogeneo agli altri.
La novella «La lupa» viene più tardi trasposta a livello teatrale e cinematografico. Due sono addirittura i film che ci raccontano la storia: quello diretto da Antonio Lattuada nel 1953 e l’ultimo girato da Gabriele Lavia nel 1996, ove Monica Guerritore interpreta i panni della protagonista. Celeberrimo è l’incipit: «Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna – e pure non era più giovane – era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così». L’autore costruisce attorno al personaggio un’aura infernale.
Lo stesso nome, attribuito alla donna dal popolo, sembra prelevato dall’Inferno dantesco dove la lupa rappresenta la cupidigia: anche la gnà Pina è «sazia giammai – di nulla». Il campo semantico legato alla lupa e al cane prosegue in tutto il racconto: lei è «sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e sospettoso della lupa affamata». Il popolo affianca a quella donna anche l’immagine del demonio: la lupa ha gli «occhi da satanasso» e, poi ancora, leggiamo che «il diavolo quando invecchia si fa eremita». Per questo la gente si fa il segno della croce quando vede quella lupa che non va mai in chiesa, «né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi».