La visione dantesca non è, però, conclusa qui. Dante ricorda che era tutto preso dall’ardore di guardare, la sua vista era come catturata dalla bellezza del bene che aveva davanti a sé tanto che era impossibile rivolgersi altrove. Quanto più guardava tanto più il desiderio di contemplare cresceva. Il desiderio si compiva nel suo risorgere e accrescersi. L’uomo non si stanca mai di stare di fronte alla bellezza, alla verità e al bene. La natura vera del desiderio è quella di non sapersi accontentare, ma di tendere in continuazione alle stelle. Allora, nella profondità di quel bagliore Dante vide tre cerchi di tre colori diversi, concentrici e della stessa dimensione. Così scrive: «Ne la profonda e chiara sussistenza/ de l’alto lume parvermi tre giri/ di tre colori e d’una contenenza:/ e l’un da l’altro come iri da iri/ parea reflesso, e ‘l terzo parea foco/ che quinci e quindi igualmente si spiri». Qui è descritto il mistero trinitario, il Dio uno e trino, Padre, Figlio e Spirito Santo. Il secondo cerchio (il Figlio) appariva provenire dal primo (il Padre) e il terzo (lo Spirito Santo) proveniva dal primo e dal secondo (Padre e Figlio).

Guardando ancora meglio, dentro il secondo cerchio il poeta vide l’immagine dell’uomo. Che fatto straordinario! Nel mistero di Dio Dante ritrova il mistero dell’uomo, il volto umano, Dio che si è fatto carne per provare e condividere con noi la nostra condizione. Cercando nella profondità del mistero dell’essere Dante ha visto l’uomo stesso, che è creato a immagine e somiglianza di Dio. Questo significa che Dio è la verità di noi stessi e in Lui si comprende la nostra vera natura. A questo punto, il poeta ha cercato di capire fino in fondo il mistero dell’incarnazione tanto che scrive: «Veder voleva come si convenne/l’imago al cerchio e come vi s’indova». Come al momento della visione le capacità della mente umana erano del tutto inadeguate, così, ora, anche le parole appaiono insufficienti. Dante venne catturato in tutto il suo essere, nel suo desiderio e nella sua volontà, da questo amore abbagliante, che muove il cuore dell’uomo.

Si conclude così l’umana avventura di Dante, nell’esperienza che la risposta all’attesa di felicità e di bellezza è «l’amor che move il sole e l’altre stelle». Ed è lo stesso amore che muove tutto a far rivolgere verso la Terra la volontà e il desiderio di Dante, che altrimenti non si sarebbe più separato da quella bellezza ineffabile. Il Paradiso si conclude in maniera circolare con un magnifico verso che richiama il primo verso di apertura: «La gloria di colui che tutto move». Dio è quell’«amor che move il sole e l’altre stelle», legge più forte di tutte le altre forze fisiche. La carità è la legge della realtà e, nel contempo, la legge profonda del cuore dell’uomo. Per questo motivo l’uomo trova una soddisfazione nell’adesione a questa profonda legge dell’Essere, perché la legge del cuore coincide con la legge del reale. Quell’amore che ci è stato spesso presentato in forma moralistica, come imperativo categorico, appartiene, invece, all’ontologia. L’amore non è un’imposizione esterna a cui ci si deve adeguare. L’uomo è chiamato a verificare attraverso la propria esperienza questa soddisfazione profonda, questa corrispondenza tra il cuore e la legge della realtà. Senza questa verifica l’amore sarà sempre percepito come un optional da rispettare solo per essere buoni. L’amore/carità non è un’alternativa, senza la carità nulla vale. Cristo/carità è la Presenza che sa ridare un’unità alla persona umana frantumata, scissa, presa da mille preoccupazioni e animata da molteplici interessi che non sanno acquietare il nostro desiderio di felicità e di amore. Come ha scritto sant’Agostino: «Ci hai creati per Te e il nostro cuore è senza pace finché non riposa in Te». (La Nuova Bussola quotidiana dell’11-10-2015)