Guadagnare il mondo intero, ma poi perdere sé stessi. Ne vale la pena? Con La roba e poi Mastro Don Gesualdo, lo scrittore siciliano afferma il contrario. Una vita passata a mettersi al sicuro dall’imprevisto, inseguendo il successo e le cose, alla lunga trasforma in cosa anche il cuore.
La produzione di Giovanni Verga (1840-1922) è, in gran parte, specchio della vita dell’autore, soprattutto quando descrive il desiderio di successo e, nel contempo, il sacrificio delle radici, delle tradizioni e degli affetti in nome della conquista dell’obiettivo tanto agognato. Lo scrittore siciliano si trasferì da Catania a Firenze per approdare poi a Milano, la capitale economica ed editoriale dell’allora Regno d’Italia. Vagando per le diverse città, corteggiò spesso donne già impegnate e non creò radici affettive. Il successo economico lo baciò non tanto per la vasta produzione romanzesca, che ottenne un certo consenso da parte della critica, pur se non di pubblico, ma in seguito alla sceneggiatura di una sua novella, quella Cavalleria rusticana che venne musicata da Mascagni e rappresentata alla Scala. Nel 1893 Verga ritornò in Sicilia, rinchiudendosi, a quanto è testimoniato, in un cupo silenzio e in una improduttività letteraria per quasi trent’anni (pubblicò, infatti, pochissimo dopo Mastro don Gesualdo uscito nel 1889).