dannunzioGabriele Rapagnetta, in arte D’Annunzio (1863-1938) dal cognome dello zio Antonio, è la figura che meglio rappresenta il clima culturale dell’Italia tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. È il personaggio più citato, che maggiormente compare sulle riviste, di cui si parla nel bene e nel male, per gli scandali, per le imprese (la beffa di Buccari, il volantinaggio su Vienna, Fiume), per gli arditi romanzi in cui racconta le proprie storie sentimentali, per le spese folli senza le quali non potrebbe condurre una vita quasi principesca, ma che gli provocano debiti tali che per alcuni anni deve lasciare l’Italia.

Figura eclettica e, al contempo, eccentrica, poliedrica e versata in diversi campi, poeta, drammaturgo e romanziere, pubblicista e sceneggiatore, abile self promoter, è lui l’artista con cui tutti i contemporanei si devono confrontare, sia che lo amino e cerchino di imitarlo sia che lo osteggino e lo avversino apertamente. D’Annunzio deve essere «attraversato», capito, superato, parodiato, come ha ben compreso Montale, che, trent’anni più giovane, lo identifica come idolo polemico tra i poeti laureati de «I limoni» nella prima raccolta Ossi di seppia (1925), ma ancora nella quarta raccolta, Satura (1971), ormai anziano, fa memoria del poeta pescarese, morto da alcuni decenni, e fa la parodia de «La pioggia nel pineto» nel suo componimento «Piove». Come per processo osmotico D’annunzio recepisce a suo modo, è bene dirlo, le molteplici sollecitazioni letterarie, culturali e filosofiche del periodo in cui vive. Sarà lui ad aprire la stagione del Decadentismo esteta in Italia con il romanzo Il piacere (1889), che risente dell’influenza del padre dell’Estetismo, quel Huysmans che scrisse A ritroso.