Mentre trascorreva la calda canicola estiva il 16 luglio 1821 nella frescura della villa di Brusuglio, sulla «Gazzetta di Milano» Manzoni lesse una notizia che lo ammutolì. Era morto l’uomo più noto della sua epoca, dal quale i posteri avrebbero addirittura mutuato il nome per ricordare quei decenni: Napoleone Bonaparte.

Certo, allora le notizie circolavano con una velocità ben diversa da quella contemporanea. Solo dopo settanta giorni Manzoni aveva avuto informazioni relative alla morte avvenuta il 5 maggio. Del resto l’imperatore francese decaduto era stato esiliato nell’isola di Sant’Elena, a migliaia di chilometri dalla costa continentale africana.

Erano passati dieci anni dal cammino di conversione di Manzoni ed ora la notizia più sorprendente era che il personaggio più famoso, ma anche il più ostile al cristianesimo e alla chiesa, si era convertito prima di morire. «Più superba altezza/ al disonor del Golgota/ giammai non si chinò» (Manzoni).

Manzoni, che aveva vissuto la conversione come il punto di snodo centrale della sua vita, cercò di immaginare gli ultimi momenti di quell’uomo che aveva segnato la storia e il destino di molti mortali.

Manzoni, che non si era mai spinto né ad elogiare l’imperatore quando era sul trono e nel pieno dei riconoscimenti celebrativi né tantomeno a denigrarlo quando era sprofondato nella rovina in seguito alla sconfitta, ora compose in soli tre giorni (dal 17 al 19 luglio) un’ode a Napoleone.

Eppure già tanti artisti e intellettuali contemporanei lo avevano esaltato: tra i tanti il pittore Jacques Louis David, il musicista Beethoven (che gli dedicò la sinfonia n. 3, la cosiddetta Eroica), il filosofo Hegel.

Manzoni s’immaginò i sei anni sull’Isola e poi gli ultimi giorni del grande uomo. Lo rappresentò in piedi davanti all’orizzonte, con le braccia «al sen conserte», con gli occhi carismatici rivolti a terra: è l’iconografia con cui Napoleone è spesso rappresentato nei dipinti o nei film. Preso dalla nostalgia, tante volte Napoleone cercò di raccontare le sue vicende, ma sulle pagine di quel diario cadde la sua «stanca mano». La memoria fu per lui come un’onda che in un primo momento gli fece presagire la terra cui arrivare per trovare la salvezza, ma poi lo sommerse con il peso dell’acqua annegandolo.

Napoleone aveva senz’altro ripensato alle sue conquiste, ai progetti che aveva vagheggiato nel cuore e che poi aveva concretizzato superando ogni attesa. Il suo esercito si era mosso dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno: da nord a sud, da ovest ad est in un movimento che riproduceva la croce, segno della morte e della distruzione che portava nel mondo ove passava con i suoi soldati. Fu questa vera gloria? «Ai posteri l’ardua sentenza» è solo apparentemente la risposta. Non è vero che Manzoni non abbia chiaro per che cosa valga la pena vivere. Non è vero che si debba attendere il futuro, prossimo o lontano che sia, per giudicare. Infatti, alla fine dell’ode leggiamo che sul letto di morte, solo e abbandonato da tutti, Napoleone venne portato in un’aria più respirabile, dov’è silenzio e tenebre la gloria che fu, dove poté comprendere che quanto rimane nella vita è solo l’eternità. Il tempo terreno, invece, fugge lasciando dietro di sé solo la certezza della vanitas vanitatum (“vanità delle vanità”).

Quando scrisse Il cinque maggio, Manzoni si basò soltanto sulle notizie che gli erano giunte. Non poteva sapere quanto si scoprì solo più tardi nel 1840, meno di vent’anni dopo la morte di Napoleone, quando Robert-Antoine de Beauterne diede alle stampe la trascrizione dei discorsi sotto il titolo Sentiment de Napoléon sur le christianisme. Conversations religieuses, testo che riscosse così tanto successo che ci fu una ristampa nel 1841 e una subito dopo nel 1843. Beauterne era entrato in contatto con testimoni privilegiati dell’esilio di Napoleone, generali (come Bertrand e Goucard) e medici (ad esempio O’ Meara e Antonmarchi). Beauterne si era anche avvalso del celebre Memoriale di Sant’Elena scritto da Las Cases nel 1823.

Alcuni aspetti rendono attendibile questo documento: in primis i testimoni erano sia credenti che miscredenti; inoltre, erano tutti ancora in vita quando venne pubblicato il testo e, considerata l’importanza delle affermazioni contenute, avrebbero potuto smentirle e confutarle (si stava affrontando il tema del rapporto con la cattolicità e con Gesù del più importante personaggio di quell’epoca storica); in terzo luogo, talvolta i personaggi che erano a colloquio apparivano in disaccordo con Napoleone e non erano da lui trattati in maniera lusinghiera e positiva.

Al generale Bertrand che chiese a Napoleone se avesse mai visto Dio, l’ex imperatore rispose che anche il genio non si vedeva, ma si coglieva dagli effetti che produceva. Quando nel folto della battaglia la situazione volgeva al peggio, il generale cercava consiglio nello sguardo dell’imperatore per capire come agire; ora, allo stesso modo, tutto gridava nel petto dell’uomo, c’erano un istinto, una fede, una certezza, un grido che uscivano dal cuore:

 

Quando rifletto e guardo la natura, e mi dico: Dio! Resto ammirato e grido: Sì, Dio c’è! Come le mie vittorie hanno convinto lei a credere in me; così l’universo mi fa credere in Dio. Io credo in Dio a causa di ciò che vedo e di ciò che sento.

 

Da dove venivano, si chiedeva ancora Napoleone, il genio, la creatività, l’intuito che tanto si ammiravano negli uomini se non da Dio?

Napoleone confessava di aver urgenza di Dio, di desiderarlo. Napoleone temeva quanti non avevano desiderio di Dio, aveva orrore di coloro che si dichiaravano atei e materialisti, riconosceva di non aver nulla in comune con loro.

Al medico O’ Meara sorpreso al vederlo leggere la Bibbia, Napoleone replicava che non era mai stato ateo e che appena aveva potuto aveva cercato di ristabilire la religione, grande consolazione dell’uomo.

Ma in quale Dio credeva Napoleone? Nel Dio cristiano, il Dio uno e trino. «Io credo» rispose il 9 novembre 1817 «ciò che crede la chiesa». Perché allora Napoleone si era comportato per tanto tempo in modo ostile alla chiesa o dimentico di Cristo, almeno ad una prima vista?

Napoleone affermava che spesso gli avevano chiesto di dichiararsi nuovo capo religioso per esautorare il papa, garantendogli che avrebbe avuto un grande seguito in Francia e nel mondo. Ricordando gli anni in cui era sul trono, Napoleone riconosceva di essere circondato da generali che erano ben lontani dall’essere devoti.

Per quale ragione si diffuse allora la fama che Napoleone si fosse convertito in punto di morte? Probabilmente le motivazioni vanno ricercate nelle richieste che Napoleone fece all’abate Vignali per le celebrazioni dopo la sua morte e nel modo in cui l’ex imperatore visse gli ultimi giorni. Napoleone chiese che venisse celebrata la messa tutti i giorni anche dopo la sua morte fino all’inumazione, che fosse messo un crocifisso sul suo cuore, che fosse esposto tutti i giorni il Santissimo Sacramento e che fossero recitate quotidianamente le preghiere penitenziali delle quaranta ore. Il 3 maggio, due giorni prima della morte, Napoleone disse: «Muoio in pace con il genere umano». Antonmarchi e Marchand attestarono che Napoleone ricevette il viatico per la seconda volta. L’ultimo sguardo di Napoleone fu rivolto al busto del figlio, collocato di fronte al letto. Congiunte le mani, infine disse: «Dio mio». (Tempi.it)