CONVEGNO DI RAVENNA 2023

LA PRESENZA DELLA COMMEDIA NEL CANZONIERE DEL PETRARCA

di Giovanni Fighera

PETRARCA SOSTIENE DI NON AVER LETTO LA COMMEDIA

Nel 1350 Giovanni Boccaccio conobbe Petrarca avviando così un’amicizia che si sarebbe protratta nel tempo. Grande estimatore di Dante, Boccaccio sentì il fascino della cultura e dell’opera di Petrarca, ma cercò, al contempo, di promuovere nell’amico la rivalutazione del grande poeta fiorentino. Gli inviò addirittura una copia della Commedia, dal momento che l’autore del Canzoniere non la possedeva (almeno così sosteneva), accompagnandola con un’epistola metrica latina in cui lo invitava ad accogliere il  «gratum Dantis opus doctis, vulgo mirabile» («la gradita opera del dotto Dante, mirabile per il volgo»).

Negli anni successivi Boccaccio incontrò nuovamente Petrarca, lo provocò ancora sulla figura e sull’opera di Dante con una lettera che non ci è pervenuta. Abbiamo, però, la risposta del Petrarca: una lettera appartenente alla raccolta delle Familiares (XXI, 15) scritta nel 1359 in cui l’autore del Canzoniere cercava di allontanare le accuse d’invidia nei confronti di Dante. Petrarca apprezzava il Trattatello in laude di Dante scritto dal Boccaccio, ma trovava che la lettera di scuse redatta da Boccaccio dimostrasse chiaramente che l’amico non lo conoscesse ancora bene.

Petrarca non era, infatti, in alcun modo infastidito dal fatto che si tessessero elogi nei confronti di Dante. Petrarca allontanava da sé le accuse di odio e di disprezzo nei confronti di una persona che aveva visto solo una volta, per giunta quando era ancora bambino: Dante si trovò a vivere con il nonno e il padre di Petrarca, il primo più anziano di lui, il secondo più giovane; tutti compagni di esilio in seguito all’epurazione avvenuta nella città di Firenze dopo la cacciata dei guelfi bianchi nel 1302. A quell’epoca Francesco Petrarca aveva solo sette anni, da quanto emerge nella lettera, mentre Dante quarantasei.

Petrarca riconosceva che l’accusa che gli era stata mossa di non possedere la Commedia fosse veritiera: lui, che disponeva di tantissimi libri, anche quelli introvabili, che aveva girato l’Europa alla ricerca dei codices manoscritti nelle biblioteche occidentali dando così avvio alla filologia moderna, affermava di non aver mai posseduto l’opera in volgare più importante e famosa. A suo dire, le ragioni erano adducibili non a riluttanza per Dante e alla sua opera, ma al fatto che anche lui Petrarca da giovane si esercitava nella lingua volgare e temeva «di diventare un pedissequo e inconsapevole imitatore, considerato che a quell’età si è plasmabili come cera e inclini all’ammirazione incondizionata». Aveva sviluppato «un grado tale di autostima se non di presunzione» da ritenere «di avere ingegno sufficiente a raggiungere» una sua «peculiare maniera in quel genere senza l’aiuto di chicchessia». Se nelle sue opere comparissero espressioni simili a quelle dantesche, ciò non sarebbe dovuto ad «un’indebita appropriazione o per volontà imitativa» (vizi che ha sempre fuggito «come scogli in mare, soprattutto nelle composizioni in volgare»), ma ad «un’inconsapevole passaggio sulle medesime tracce dovuto o a un puro caso o a un’affinità intellettuale».

Nella lettera Petrarca concedeva «senza difficoltà il primato dell’eloquenza in volgare» a Dante, ma, al contempo, sosteneva la netta superiorità della scrittura latina, come avrebbe ribadito nella Seniles XV 2. In un certo senso è come se Petrarca stesse affermando la sua superiorità nei confronti nel rivale.

Ma è proprio vero che Petrarca si sia dedicato al volgare soltanto nell’adolescenza? Oppure la sua preoccupazione per il Canzoniere lo avrebbe assillato per tutta la vita fino alla morte? È indubbio, com’è dimostrato dagli studi condotti (che rintracciano una fitta rete di reminiscenze e allusioni sia nel Canzoniere che nei Trionfi) e come verificheremo nel percorso, che Petrarca conosceva bene l’opera dantesca.

 

PETRARCA CONOSCE BENE LA COMMEDIA: richiami danteschi nel Canzoniere

Nelle lettere Petrarca non si rifiuta mai di dichiarare le fonti classiche cui attinge, ma nega sempre di essersi avvalso della Commedia in maniera diretta e consapevole. Eventuali dantismi presenti nel Canzoniere sarebbero frutto semplicemente dell’utilizzo di espressioni già in uso nella lingua letteraria.

In realtà, gli studi condotti in questi secoli mostrano un ben diverso rapporto tra il poeta di Laura e il cantore del viaggio nell’aldilà.

Un saggio del filologo Paolo Trovato (1952) intitolato Dante in Petrarca. Per un inventario dei dantismi nei Rerum vulgarium fragmenta (1979) sintetizza il lavoro condotto da tutti i dantisti dalla divulgazione della Commedia ad oggi. Sono alcune centinaia i richiami danteschi all’interno del Canzoniere. Non ci curiamo qui di riprodurli, rimandando all’eccellente lavoro dello studioso.

Petrarca conosce bene la Vita nova, ma in particolar modo rimane «profondamente e irrimediabilmente colpito» dalla Commedia, anche se «non tutta la vasta gamma linguistica della Commedia è chiamata in causa nelle liriche per Laura» (Trovato).

In nome del monolinguismo Petrarca rinuncia sia al vocabolario di Malebolge, talvolta triviale e carnale, sia ai latinismi del Paradiso.

Nel Canzoniere è presente la memoria di parole singole di ascendenza dantesca: una fitta rete di nomi propri di personaggi mitologici o di luoghi è entrato in poesia senz’altro grazie all’opera di Dante.

Numerosissimi sono le dittologie (come «in caldo e ‘n gelo»), gli emistichi o i sintagmi poco inferiori all’emistichio (ad esempio «fiere selvagge», «l’aura fosca», «il dolce lume», «le luci sante», ecc.) che sono stati accolti nel Canzoniere e di solito decontestualizzati, ossia tolti dal contesto originario e inseriti in una situazione del tutto nuova. «La rima sembra essere il luogo privilegiato per i recuperi verbali» (Trovato).

Per quanto riguarda la grafia Petrarca tende a proporre soluzioni grafiche e fono-morfologiche latineggianti e non municipali («senza» sostituisce «sanza», «eterno» al posto di «etterno», «meravigliarsi» invece di «maravigliarsi», ecc.).

Studi recenti sottolineano come non ci sia una distanza così grande tra l’uso dantesco dell’endecasillabo e la tecnica del Petrarca, «anzi non sono affatto trascurabili le convergenze» (Trovato).

Ad esempio, il dantesco «E io che del color mi fui accorto/ dissi» è alla base del petrarchesco «quando sarai del mio colore accorto/ dirai».

Non è tanto il contenuto dei versi danteschi o il contesto a suggestionare Petrarca, quanto le «nervature sintattiche di certi passi» (Trovato).

La parole che Dante rivolge a Virgilio per indurlo a fermarsi finché non giunga la fiamma di Ulisse e Diomede nel canto XXVI dell’Inferno («Maestro, assai ten priego/ e ripriego […]/ che non mi facci») si tramutano in Petrarca in «I’ ò pregato Amor, e’l ne ripriego/ che mi scusi appo voi».

Dall’analisi attenta della fitta presenza della Commedia nel Canzoniere appare chiaro che

 

L’opinione comune secondo la quale la constructio petrarchesca dipenderebbe in larghissima misura dallo studio dei classici, e in particolare di Cicerone, debba, quanto meno, concedere un po’ di spazio all’influsso dantesco (Trovato).

 

I celeberrimi versi in cui Cacciaguida profetizza l’esilio a Dante:

 

Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.

 

riecheggiano in Petrarca:

 

quanto è spinoso calle

et quanto alpestra et dura la salita

(R, V. F. XXV, vv. 12-13).

 

Anche nell’analisi delle rime del Canzoniere emerge la profondità dell’influsso dantesco.

Conclude Trovato:

 

Contro a quanto ci si aspetterebbe sulla base di una concezione un tantino schematica dei rapporti tra opere di «genere» diverso, la Commedia conta più delle Rime (e di ogni altro testo volgare, direi). Il Petrarca mutua non solo lessemi o sintagmi più o meno estesi […] e un numero notevole di «famiglie» di rime non comuni […], ma persino moduli ritmico-sintattici «trans-versali». In genere, l’assunzione di tessere dantesche non comporta abbassamenti di tono e di stile in quanto si tratta di materiale accuratamente selezionato e assimilato per mezzo di vischiosi procedimenti stilistici.

 

Noi cercheremo di andare in profondità dell’influsso di Dante su Petrarca, al di là dei semplici richiami verbali, dell’influsso sulle rime e sul ritmo dell’endecasillabo. Indagheremo l’influenza della Commedia nel percorso e nella struttura del Canzoniere cercando di dimostrare come il poema dantesco influenzi anche immagini, situazioni, contenuti presenti nel Rerum vulgarium fragmenta. Ci soffermeremo solo su alcuni aspetti rimandando al saggio Dante e Petrarca. Il duello (Edizioni La Nuova bussola, 2021).

 

INFLUENZA DELLA COMMEDIA NEL PERCORSO E NELLA STRUTTURA DEL CANZONIERE

 

L’ASCESI

 

Innanzitutto il percorso del Canzoniere appare salvifico, in un certo modo simile a quello della Commedia. Come Dante ha concluso il poema con la preghiera Vergine madre figlia del tuo figlio, così anche Petrarca terminerà il suo capolavoro con un inno alla Vergine Maria (Vergine bella che di sol vestita). Dalla situazione di difficoltà di Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, dal perenne struggimento interiore per l’incapacità di rivolgersi definitivamente al bene l’autore passa, così, all’affidamento del  proprio male e della propria malinconia a Colei che volentieri viene in nostro soccorso.

È una traiettoria di ascesi, delineata in maniera inaspettata, perché noi tutti, che abbiamo letto le poesie in cui l’autoascultazione e il compiacimento per  la propria situazione sembrano trionfare sull’adesione al bene e al vero, mai ci saremmo aspettati una conclusione così consapevole e perentoria, una posizione così categorica che sembra sconfiggere e annichilire ogni accidia e pigrizia. Certo, la bellezza sta nel fatto che questo Petrarca rinnovato e «convertito» rimane ancora tutto se stesso, con i suoi «limiti», con la sua percezione dell’esistenza, abbracciati, però, da un amore più grande.

Nel caso di Petrarca tutta l’incertezza riguarda l’umano, ovvero la capacità nostra di aderire al progetto di bene che Dio ha pensato per noi, non certo la presenza e la bontà del Creatore nella nostra vita.

 

QUANDO? ACCADDE IL VENERDÌ SANTO

 

Nella notte tra il 24 o il 25 marzo (o tra il 7 o 8 aprile) del 1300 Dante si ritrova, senza neanche saperne le ragioni, in una selva oscura, piene di insidie e di pericoli che lo riempiono di angosce.

Il giorno della passione di Cristo coincide con lo smarrimento di Dante, tanto amaro ed angoscioso da portare quasi alla morte o da essere paragonato ad essa.

Quando si verifica l’innamoramento del Petrarca? Quale giorno ha scelto Amore per partire all’assalto del Petrarca? Proprio il Venerdì Santo quando «al sol si scoloraro/ per la pietà del suo Fattore i rai» (R. V. F. III).

La passione di Cristo coincide anche con l’incontro di Petrarca con Laura, come se il poeta volesse indicare la lacerazione interna provocatagli dalla sua incapacità di aderire pienamente alla fede e alla strada vocazionale di adesione agli ordini minori.

Il giorno della passione di Cristo Petrarca se ne andava senza riparo e protezione, convinto che non fosse quello un giorno in cui si dovesse proteggere da Amore. Così, il potente dio trapassò il suo cuore, trovando una via accessibile attraverso gli occhi. Senz’altro Amore non può vantarsi in alcun modo per aver espugnato una città che già stava per arrendersi. Non fu, però, motivo di onore neanche il fatto che la stessa donna amata non avesse mostrato l’arco con cui ferì il cuore del poeta.

Petrarca crea così una perfetta corrispondenza tra il giorno in cui è avvenuto il primo incontro con Laura e quello della passione di Cristo, quasi a voler sottolineare da subito l’aspetto peccaminoso di questo amore, la profonda contraddizione tra il desiderio della donna amata e l’aspirazione ad una vita religiosa fedele a Gesù. Non c’è traccia in questo sonetto del 6 aprile 1327, la data di quel Venerdì Santo.

Nel Canzoniere IV il poeta presenta la protagonista della storia, Laura, gentildonna della casata dei Noves, sposata ad un membro della famiglia dei Sade, oppure lei stessa appartenente a quella famiglia fin dalla nascita. Una volta ancora, Petrarca vuole creare un’analogia tra i testi scritturali e la sua vicenda sentimentale. Come Gesù non è nato a Roma, ma in un piccolo paesino della Giudea, cioè Betlemme, anche Laura non è nata ad Avignone, sede all’epoca della Curia papale, bensì in un piccolo borgo: nel caso in cui si trattasse di Laura dei Sade il paese natale sarebbe Le Thor. È evidente che Petrarca ribalta qui il paragone tra la donna amata e Cristo rispetto a Canzoniere II: ora Laura non richiama più il peccato, ma è cristologica, inviata dal Cielo.

 

 

DOVE? NELLA SELVA OSCURA

 

La celeberrima immagine dantesca della selva oscura («selvaggia e aspra e forte») è richiamata nel Canzoniere del Petrarca che ricerca la solitudine come soluzione illusoria per sanare l’amore per Laura non corrisposto.

Spesso Petrarca vuole stare lontano dagli occhi indiscreti di persone che riescano a leggere nei suoi atti l’incendio d’amore che divampa nel suo cuore.

Nei Remedia amoris il poeta latino Ovidio (43 a. C. – 17 o 17 d. C.) suggerisce di allontanarsi dai luoghi frequentati dalla donna amata in modo da dimenticarla e divincolarsi dalle reti gettate da Amore. Quasi seguendo le indicazioni suggerite dal poeta latino esperto di arte amatoria Petrarca scrive il sonetto Solo e pensoso i piú deserti campi (Rerum vulgarium fragmenta XXXV).

Il poeta, circospetto, si guarda attorno per evitare luoghi che siano calcati da essere umani. Con un’abile operazione letteraria (l’uso dell’allusione nel verso «ove vestigio uman l’arena stampi») Petrarca eleva la sua condizione a una situazione quasi eroica presentandosi come un novello Bellerofonte, personaggio omerico dell’Iliade che erra solitario.

Scrive Petrarca nel Secretum:

Non meno propriamente si poteva dire di te quello che Omero disse di Bellerofonte «il quale errava triste e piangente per stranieri campi, rodendosi il cuore ed evitando le vestigia umane».

 

Come può Petrarca rifarsi ai versi di un capolavoro della letteratura greca se non conosce il greco, ha solo pochi rudimenti della lingua che certamente non gli consentono di leggere Omero? Il poeta non ha letto l’Iliade in lingua originale, ma conosce bene le Tusculanae disputationes nel terzo libro delle quali (III, 26, 63) Cicerone ripropone la traduzione di versi del VI libro dell’Iliade dedicati all’eroe omerico.

Attraverso l’allusione ai versi omerici dedicati a Bellerofonte Petrarca eleva la sua solitudine ad una dimensione epica e la lotta contro Amore diviene una guerra in cui il poeta è solo a contrastare una forza invincibile.

Nella prima terzina Petrarca descrive il palcoscenico dei suoi vagabondaggi («monti e piagge/ e fiumi e selve»), scenari vaghi e imprecisati.

I luoghi in cui Petrarca vorrebbe perdersi, unici compagni della confessione silenziosa del poeta, potrebbero essere ovunque:

Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io con lui

 

Petrarca allude qui a versi tra i più noti dell’intera Commedia (collocati all’inizio del primo canto dell’Inferno):

 

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura.

 

Petrarca vorrebbe trovare la selva oscura di Dante, in modo tale da non incontrare più Amore. Pur di non provare più la sofferenza d’amore, Petrarca sarebbe disposto addirittura a questo.

Se non trova la selva oscura di Dante, Petrarca scopre nella sua vita un altro luogo ove rifugiarsi per scappare dalla propria irrisolutezza e dal peccato: è il mondo della poesia e delle lettere, un porto di salvezza e di refrigerio per il poeta dalle fatiche del vivere; è il luogo della letteratura, degli amici letterati di ogni tempo, del perfezionamento della scrittura attraverso l’armonia della costruzione, il sapiente uso di dittologie, di antitesi, di espedienti stilistici che trasmettano l’equilibrio e la compostezza.

 

IN PELLEGRINAGGIO

 

Dante è un homo viator, un pellegrino che è in viaggio dalla selva oscura verso la visione di Dio. Nel canto XXXI del Paradiso, giunto dinanzi alla Candida Rosa, formata dai beati, compare per ben due volte l’immagine del pellegrino: una prima volta quando Dante contempla lo spettacolo della rosa dei beati, proprio come un pellegrino che giunga alla meta del santuario e trovi ristoro nel guardarlo ammirato; una seconda volta, quando si volge verso Beatrice per avere spiegazioni e trova invece un vecchio dall’atteggiamento benevolo. È san Bernardo che lo invita a guardare tutta la Candida Rosa, perché la contemplazione lo preparerà alla visione di Dio. Dante osserva commosso il volto del santo come un pellegrino che non si sazia di vedere il volto di Gesù impresso nel sudario della Veronica, conservato nella basilica di San Pietro. Dante scrive:

 

Qual è colui che forse di Croazia
viene a veder la Veronica nostra,
che per l’antica fame non sen sazia,
ma dice nel pensier, fin che si mostra:
’Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace,
or fu sì fatta la sembianza vostra?’;
tal era io mirando la vivace
carità di colui che ’n questo mondo,
contemplando, gustò di quella pace.

 

Petrarca riprende questa similitudine in uno dei sonetti più famosi (Canzoniere XVI):

 

Movesi il vecchierel canuto e bianco
del dolce loco ov’à sua età fornita
e da la famigliuola sbigottita
che vede il caro padre venir manco;

indi traendo poi l’antico fianco
per l’estreme giornate di sua vita,
quanto piú po col buon voler s’aita,
rotto dagli anni, e dal camino stanco;

e viene a Roma, seguendo ’l desio,
per mirar la sembianza di colui
ch’ancor lassù nel ciel vedere spera:

così, lasso, talor vo cercand’io,
Donna, quanto è possibile, in altrui
la disiata vostra forma vera.

 

La situazione esistenziale dell’uomo è simile a quella di un vecchio stanco, disposto a lasciare tutto, anche la sua famiglia, negli ultimi giorni della sua vita, per recarsi a Roma alla ricerca della Veronica, l’immagine del volto di Cristo effigiata in un’icona bizantina, o più probabilmente nel Santo Volto ora conservato a Manoppello, che all’epoca di Petrarca era ancora visibile a Roma. E proprio il nome della Veronica è celato nell’espressione «forma vera» dell’ultimo verso.

Il viaggio di Dante, pellegrino medioevale condotto in un percorso lineare, ascendente verso il Cielo, contrasta con l’iter circolare del Petrarca che lo induce a ritornare negli stessi luoghi, in maniera quasi ossessiva alla ricerca di quel volto che ha idolatrato.

 

L’ITALIA, «IL BEL PAESE» DI «DOLORE OSTELLO»

 

Dante manifestò talvolta i suoi entusiasmi nei confronti della sua terra, «il bel paese dove il sì suona», il bel giardino d’Europa.

Altre volte con tono polemico, da uomo che amava il proprio Paese, ma era addolorato per quanto vi si verificava, si scagliò con parole di violenza inaudita:

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!

 

Siamo nel canto VI del Purgatorio. A Dante l’Italia non si presenta come una donna raffinata, ma addirittura come luogo di prostituzione, ricettacolo di sofferenza e di dolore. Non c’è città medioevale d’Italia, prosegue nei versi successivi Dante, che non sia lacerata dalle guerre. Manca un’autorità che sia riferimento a tutti i comuni e all’intera popolazione.

L’immagine dell’«albergo di dolore» ricompare nel Canzoniere del Petrarca, nel sonetto CXIV che tanto influenzerà la cultura successiva anche nelle immagini e nelle espressioni relative alla «cattività babilonese»:

 

De l’empia Babilonia, ond’è fuggita
ogni vergogna, ond’ogni bene è fori,
albergo di dolor, madre d’errori,
son fuggito io per allungar la vita.

Qui mi sto solo, e come Amor m’invita,
or rime e versi, or colgo erbette e fiori,
seco parlando, e a tempi migliori
sempre pensando; e questo sol m’aita.

Né del vulgo mi cal né di Fortuna,
né di me molto né di cosa vile,
né dentro sento né di fuor gran caldo;

sol due persone cheggio, e vorrei l’una
col cor ver me pacificato umile,
l’altro col piè, sì come mai fu, saldo.

 

Divenuta sede della Curia papale dal 1309 al 1377, Avignone è definita «albergo di dolor». Petrarca vi ricoprì alcuni compiti presso la Curia, ma col tempo si distaccò gradualmente da quel mondo promuovendo il ritorno del papato a Roma.

 

LA DONNA AMATA IN UNA NUVOLA DI FIORI

 

A Valchiusa avvenne probabilmente un incontro assai significativo di Petrarca con Laura, ricordato nei componimenti come se fosse importante quasi come il primo incontro con lei avvenuto in chiesa il venerdì santo.

Nella canzone CXXVI, la più nota del Canzoniere, conosciuta come Chiare fresche e dolci acque, Petrarca apostrofa diversi elementi della natura: il fiume Sorga, un albero a cui si è appoggiata Laura, le erbe e i fiori che ricoprirono la veste dell’amata, l’aria serena in cui la donna gli è apparsa. Sono le uniche presenze che possono ascoltare lo sfogo e il dolore del poeta che si immagina in punto di morte. Una volta ancora, Petrarca indulge al solipsismo ed esprime il sentimento di solitudine dinanzi all’assenza di Laura.

Nella quarta e nella quinta stanza segue il racconto memoriale, trasfigurato dagli occhi del ricordo. Un giorno, la donna gli apparve, «umile in tanta gloria,/coverta già de l’amoroso nembo» di fiori che caddero sulle trecce bionde o sul vestito di lei. Petrarca tesse così la descrizione del trionfo di Laura.

L’immagine della nuvola di fiori è di ascendenza letteraria, già presente ad esempio nel canto XXX del Purgatorio, quando Dante rivede dopo dieci anni Beatrice: un velo bianco, un mantello verde e una veste rossa ricoprono la donna, che Dante non vede in volto, ma riconosce come la donna amata:

 

così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,
sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.

 

La bellezza di Beatrice è via per accedere a Dio. Nella descrizione di Petrarca, pur rimanendo alcuni aspetti formali nella descrizione dell’apparizione dell’amata, scompare del tutto la dimensione sacrale e religiosa. Domina, invece, la musicalità dei versi. Il ritmo sottolinea il movimento elicoidale dei fiori che cadono dall’alto verso terra, in maniera lenta quasi assecondando il ritmo del testo. Si può cogliere pienamente la maestria della scrittura petrarchesca attraverso la lettura ad alta voce dei versi:

 

Da’ be’ rami scendea,

dolce ne la memoria,

una pioggia di fior sovra ‘l suo grembo,

ed ella si sedea

umile in tanta gloria,

coverta già de l’amoroso nembo;

qual fior cadea sul lembo,

qual su le treccie bionde,

ch’oro forbito e perle

eran quel dì a vederle;

qual si posava in terra e qual su l’onde,

qual con un vago erore

girando parea dir: Qui regna Amore.

 

La bellezza della visione è tale che Petrarca perde la percezione della realtà e non si ricorda neppure come sia giunto in quel luogo. Laura sembra una creatura proveniente dal Paradiso.

Sentiamo tutto lo stupore del poeta per quella apparizione paradisiaca:

 

Quante volte diss’io

allor pien di spavento:

Costei per fermo nacque in paradiso!

Così carco d’oblio

il divin portamento

e ‘l volto e le parole e ‘l dolce riso

m’aveano, e sì diviso

da l’imagine vera,

ch’i’ dicea sospirando:

Qui come venn’io o quando?

credendo esser in ciel, non là dov’era.

Da indi in qua mi piace

quest’erba sì ch’altrove non ò pace.

 

LA NASCITA DI BEATRICE AL CIELO E IL DIES NATALIS DI PETRARCA

 

Beatrice e Laura muoiono, rispettivamente nella Vita nova e nel Canzoniere. Del resto, il Rerum vulgarium fragmenta vuole competere con l’opera giovanile di Dante: così come la Vita nova è la storia della vita del poeta rinnovata dall’incontro con l’amata, il capolavoro petrarchesco costituisce il romanzo d’amore di un uomo che ha visto deviare la propria condotta dalla via virtuosa dopo avere conosciuto Laura e che ha lentamente ripreso coscienza della strada buona, una volta che la donna si è allontanata da questa terra.

Vi è, però, una grande differenza tra le due morti. Se il giorno in cui Beatrice va in Cielo (l’8 giugno 1290) costituisce il dies natalis di quella giovane donna, spentasi a ventiquattro anni, la morte di Laura durante la peste nera del 1348 rappresenta il dies natalis per Petrarca, il suo Natale.

Il Canzoniere appare, invece, diviso in due parti: In vita di Madonna Laura e In morte di Madonna Laura. Appartengono alla prima divisione i componimenti I-CCLXIII (ovvero dall’1 al 263), alla seconda le poesie CCLXIV-CCCLXVI (cioè dal 264 al 366). Ora proviamo a studiare strutture e date dell’opera. Immaginiamo che il sonetto di apertura del Canzoniere (Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono) corrisponda alla data del 6 aprile (giorno in cui Petrarca incontra Laura). Consideriamo poi il Canzoniere come un breviario laico di trecentosessantasei componimenti e mettiamo in relazione temporale le poesie ai giorni dell’anno. La poesia che apre la seconda parte In morte di Madonna Laura (corrispondente al numero CCLXIV) viene a coincidere con il 25 dicembre. In altre parole il giorno in cui muore Laura nasce Gesù. La corrispondenza è profondamente simbolica. Solo la scomparsa di Laura permette a Petrarca il definitivo allontanamento da lei e l’inizio del percorso di conversione.

Il 19 maggio Petrarca fu colpito dalla tragica notizia della morte di Laura. Così in quei giorni annotava in un codice:

 

Laura, illustre per le sue virtù e a lungo celebrata nei miei carmi, apparve per la prima volta ai miei occhi nel primo tempo della mia adolescenza, l’anno del Signore 1327, il sesto giorno di aprile, nella chiesa di s. Chiara in Avignone, a mattutino; e in quella stessa città, nello stesso mese di aprile, nello stesso giorno, nella stessa prima ora del giorno, l’anno 1348, alla luce del giorno è stata sottratta quella luce. […] La notizia dolorosa mi raggiunse a Parma.

 

CHI È LA PIÙ BELLA TRA LAURA E BEATRICE?

 

Morta neanche venticinquenne l’8 giugno 1290, Beatrice non ebbe tempo di invecchiare, a differenza di Laura, morta durante la peste del 1348, quando i segni del tempo erano ormai inconfondibili sul suo volto. I versi dedicati a Beatrice e a Laura testimoniano rispettivamente l’eterna giovinezza della prima e la corruttibilità della seconda. Proprio nel sonetto che documenta i segni del passaggio del tempo sul volto dell’amata Laura, Petrarca celebra la bellezza tutta esteriore della donna, nulla concedendo all’interiorità e all’animo di lei.

Chi è la più bella tra le due donne più famose della letteratura italiana? Chi colpisce più il lettore? E, ancora, dove risiede la reale differenza tra i due personaggi. La distanza tra Beatrice e Laura è abissale, non solo perché la prima non conosce l’invecchiamento mentre la seconda ne è suscettibile, ma anche perché la donna descritta da Dante è integrale, perfetta unità di bellezza esteriore e bontà d’animo (anzi la straripante bellezza proviene proprio dalla ricchezza d’amore), mentre di Laura conosciamo solo l’apparenza. Forse l’incolmabile divario tra Beatrice e Laura è segno della distanza tra lo sguardo di Dante (che gli permette di cogliere il cuore di Beatrice) e quello di Petrarca (più incline a soffermarsi sui compiacimenti della propria sofferenza e sull’avvenenza esteriore della donna incontrata).

La presenza di Beatrice è una sorprendente epifania, l’apparizione di una donna che è tanto più bella quanto più ama e vuole bene. La sua bellezza è frutto della straripante e incontenibile «bontà d’animo». La donna è miracolo, meraviglia, segno stesso del divino nella realtà, possibilità per l’uomo di elevarsi e di andare verso il Cielo.

Leggiamo la descrizione più nota di Beatrice (Vita nova, capitolo XXVI):

 

Tanto gentile e tanto onesta pare

la donna mia quand’ella altrui saluta,

ch’ogne lingua deven tremando muta,

e li occhi no l’ardiscon di guardare.

 

Ella si va, sentendosi laudare,

benignamente d’umiltà vestuta,

e par che sia una cosa venuta

da cielo in terra a miracol mostrare.

 

Mostrasi sì piacente a chi la mira,

che dà per li occhi una dolcezza al core,

che ‘ntender non la può chi no la prova;

 

e par che de la sua labbia si mova

un spirito soave pien d’amore,

che va dicendo a l’anima: Sospira.

 

In Dante «parea» vale per «emerge in tutta la sua oggettività» e sottolinea la sorprendente epifania a cui gli spettatori possono assistere, manifestazione sacra di una donna che è tanto più bella quanto più ama e vuole il bene. La bellezza di Beatrice che traluce all’esterno è, infatti, frutto della straripante e incontenibile bontà d’animo.

Nel sonetto XC del Canzoniere, Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, uno dei più noti e anche imitati nella storia della letteratura italiana, richiamandosi ad espressioni e immagini stilnovistiche («Non era l’andar suo cosa mortale/ma d’angelica forma, e le parole/sonavan altro che pur voce umana;// uno spirto celeste») e al verbo dantesco «parea» (presente in Tanto gentile e tanto onesta pare), Petrarca si sofferma sull’aspetto di Laura, quello del momento ormai lontano nel tempo in cui l’ha incontrata, giovane e avvenente, e quello della contemporaneità, in cui la bellezza della donna sta scemando per lasciare posto ai primi segni dell’invecchiamento. Così i due tempi che si alternano, l’imperfetto e il presente, demarcano la distanza tra il ricordo e l’attualità.

La donna che Petrarca conobbe in gioventù era bellissima. I suoi capelli d’oro mossi dalla brezza, perfettamente in linea con la tradizione letteraria precedente e allusivi al nome dell’amata attraverso il señhal («d’oro» e «a l’aura»), sono fissati in un’immagine eterna, fuori dal tempo, ormai definitivamente passata e non ripetibile, se non attraverso gli occhi della memoria: un’immagine che ha un suo equivalente pittorico nei capelli mossi dal vento del dipinto La nascita di Venere di Botticelli.

La luce degli occhi di Laura, bellissima quando Petrarca la vide in gioventù, è oramai quasi svanita. Quell’aggettivo letterario «vago», che si presta a una moltitudine di significati («errabondo», «indefinito», «bello»), denota qui la bellezza degli occhi, ribadita poco dopo dall’aggettivo «belli». Petrarca riconosce che ha incontrato Laura in un momento di particolare vulnerabilità, quando era più suscettibile ad innamorarsi. Non deve, quindi, stupire il fatto che di fronte ad una tale bellezza sia stato del tutto irretito dall’amore. Petrarca è ben lungi, però, dal raccontare un’epifania, un miracolo, l’oggettività della manifestazione di Dio attraverso l’incontro con la donna. Il poeta ricorda che il viso di Laura gli «parea» atteggiarsi a pietà. Petrarca, però, ribalta il significato del verbo che indica ora un’opinione, un’impressione labile e non oggettiva.

L’incedere, l’aspetto e la voce angelici in quella donna sembravano richiamare un essere proveniente dal Cielo. In realtà, il riferimento al Dolce Stil Novo è del tutto formale. Con il repertorio d’immagini angelicate Petrarca vuole sottolineare la straordinarietà della bellezza di Laura, non certo le sue qualità spirituali.

Di un fatto Petrarca è certo: anche se la bellezza della donna appare un po’ sfiorita, la ferita d’amore che il poeta porta al petto non è risanata.

 

IL DUELLO TRA DANTE E PETRARCA ALL’ULTIMA PREGHIERA

 

L’ultimo canto del Paradiso si apre con la preghiera di san Bernardo alla Vergine Maria (Vergine Madre, figlia del tuo figlio) perché interceda presso Dio cosicché Dante possa vederlo. Inserita tra le preghiere liturgiche, è una delle invocazioni più belle che siano mai state rivolte alla Madonna.

L’Inno alla Vergine, lungo trentanove versi, si struttura in due parti, la prima delle quali (vv. 1-21) è l’elogio di Maria, la seconda è una richiesta alla Vergine perché Dante possa conservare sani i suoi sensi, dopo aver visto Dio.

Breviario laico, composto di trecentosessantasei poesie, come fossero preghiere dedicate alla sua Madonna Laura, una per ciascun giorno dell’anno, anche il Canzoniere termina con una lode alla Madonna (Vergine bella, che di sol vestita).

Composta da dieci stanze di tredici versi ciascuna, la canzone Vergine bella, che di sol vestita è la preghiera conclusiva del Canzoniere in cui Petrarca chiede da un lato alla Madonna di essere liberato definitivamente dall’amore per Laura, dall’altro di intercedere presso Dio perché la sua anima possa essere accolta in Paradiso. La costruzione delle stanze è rigorosa tanto che l’apostrofe Vergine apre il primo e il nono verso di ciascuna stanza.

Diversamente da Dante, Petrarca non ci presenta come primo tratto la maternità della Madonna, bensì la sua bellezza. Memore dell’Apocalisse in cui la Vergine Maria è descritta al capitolo XII come «Una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle», Petrarca la apostrofa così nella prima strofa:

 

Vergine bella, che di sol vestita,

coronata di stelle, al sommo Sole

piacesti sì che ’n te sua luce ascose,

amor mi spinge a dir di te parole;

ma non so ’ncominciar senza tu’aita

e di colui ch’amando in te si pose.

Invoco lei che ben sempre rispose,

chi la chiamò con fede.

Vergine, s’a mercede

miseria estrema de l’umane cose

già mai ti volse, al mio prego t’inchina;

soccorri a la mia guerra,

ben ch’i’ sia terra e tu del ciel regina. 

 

La tradizionale invocazione alle muse tipica della poesia epica è qui sostituita dalla richiesta di aiuto alla Vergine perché possa incominciare il canto. Petrarca sente tutta la sproporzione tra la sua pochezza e caducità e la grandezza di Maria, Regina del Cielo. La Madonna raffigurata da Dante è, invece, subito da noi percepita come intima, vicina, prossima alle nostre miserie. Petrarca cerca, invece, di colmare questo senso di sproporzione tra la sua piccolezza e la Regina del Cielo con un’invocazione lunga e che asserisce in maniera reiterata e con insistenza gli stessi concetti. La moltiplicazione dello stesso significato e della preghiera, oltre ad essere conforme alla poetica di Petrarca, ha come fine quello di presentare più volte di fronte alla Madonna le richieste del poeta.

La canzone petrarchesca si dispiega, così, appunto in ben dieci stanze. La Vergine è dapprima apostrofata come una delle «vergini prudenti», dai «begli occhi/ che vider tristi la spietata stampa» dei chiodi della croce. La bellezza non viene in alcun modo sminuita dalla sofferenza, anzi viene accentuata dalla sovrabbondanza di amore con cui la Madre ha accompagnato la Passione del Figlio.

Il dantesco «Vergine Madre, figlia del tuo figlio» si traduce in Petrarca in «Vergine […] del tuo parto gentil figliuola e madre», mentre le bellissime espressioni dantesche «qui […] meridiana face/ di caritate, e giuso, intra’ mortali […] di speranza fontana vivace» sono diventate due azioni di Maria: «Allumi questa vita e l’altra adorni». Novella Eva, la Madonna è stata strumento del Cielo, grazie al suo «sì» sono state possibili l’Incarnazione di Cristo e la Redenzione dell’umanità.

«Madre, figliuola e sposa», la «Vergine gloriosa» è «vera Beatrice», colei che ha «fatto ‘l mondo libero e felice», grazia sovrabbondante che soccorre la miseria umana. Petrarca rimpiange di aver perseguito per tanti anni «mortal bellezza, atti e parole», che gli hanno «tutta ingombrata l’alma» fra «miserie e peccati». Ora che, giunto «forse a l’ultimo anno», ripone tutta la sua speranza nella Madonna, il poeta le chiede di non guardare i suoi meriti e il suo valore, ma «l’alta […] sembianza» di Dio impressa come un sigillo anche nel suo cuore misero.

Così, alla Vergine «umana e nemica d’orgoglio», la creatura umile per eccellenza, Petrarca rivolge alla fine l’ultima invocazione:

 

miserere d’un cor contrito, umile,
ché se poca mortal terra caduca
amar con sì mirabil fede soglio,
che devrò far di te, cosa gentile?
Se dal mio stato assai misero et vile

per le tue man resurgo,
Vergine, i’ sacro et purgo
al tuo nome e pensieri e ’ngegno e stile,
la lingua e ’l cor, le lagrime e i sospiri:
scorgimi al miglior guado
e prendi in grado i cangiati desiri.

 

Il poeta comprende che, se ama così tanto una creatura mortale, ancor più dovrebbe amare la Madonna. Promette che, se si rialzerà dalla condizione misera e vile in cui è caduto, consacrerà tutta la sua opera, il suo cuore e i suoi pensieri a Lei. Nel congedo Petrarca non si rivolge alla canzone (come accade di solito in questa forma metrica), ma alla Madonna:

 

raccomandami al tuo Figliuol, verace

omo e verace Dio,

ch’accolga ’l mio spirito in pace.

 

La Madre non può che condurci al Figlio, al vero Redentore dell’umanità, Gesù Cristo. In questa umiltà, in questo materno amore che vuole salvare tutti i suoi figli, traluce ancor più lo splendore della bellezza di Maria.

Nell’inno alla Vergine del Petrarca tutta l’incertezza riguarda l’umano, ovvero la nostra capacità di aderire al disegno buono che Dio ha pensato per noi, non certo la presenza e la bontà del Creatore nella nostra vita.