altIn un’epoca come la nostra in cui sembra concretizzarsi il disinteresse per la politica profetizzato dall’intellettuale francese Alexis de Tocqueville (1805-1859), in cui si è spesso persa la consapevolezza che l’impegno politico è per il bene comune, giova ricordare la lezione di Dante, quale emerge non solo dalla sua azione indefessa e imparziale all’interno del comune fiorentino prima dell’esilio di cui si è già trattato, ma anche dall’opera principale che dedicò all’attività politica, ovvero il De monarchia.

            Composto probabilmente durante la discesa di Arrigo VII in Italia (quindi tra il 1311 e il 1313) o negli anni successivi alla sua morte, il De monarchia è scritto in latino e strutturato in tre libri che rispondono a tre domande: se l’Impero sia necessario al buon ordine del mondo, se il popolo romano abbia acquisito il diritto all’Impero per una visione provvidenziale, se l’autorità dell’imperatore derivi direttamente da Dio o da un suo ministro. A differenza del Convivio e del De vulgari eloquentia, il trattato è completato.

All’epoca della sua diffusione l’opera venne strumentalizzata dai sostenitori delle tesi filo imperiali oppure fu considerata anacronistica, perché rilanciava le due istituzioni tipicamente medioevali, Impero e Chiesa, ormai pienamente in crisi nei primi decenni del Trecento. Fu persino bruciata al rogo nel 1329. Più tardi, nel Cinquecento, venne posta all’indice per secoli, fino al 1881. Da altri venne interpretata e asservita a fini politici.

Ora, al di là delle strumentalizzazioni che ne sono state fatte, gioverà riflettere su alcune considerazioni del trattato per giudicare più correttamente e senza pregiudizi il valore della posizione di Dante.

La necessità dell’Impero è giustificata dal fatto che l’unità imperiale permette la pace che è, a sua volta, la condizione indispensabile perché ciascun uomo possa perseguire il fine della vita umana, la felicità. In pratica l’Impero (oggi noi potremmo dire lo Stato) appare come strumento dell’uomo e della persona, non certo il fine.  Dante insiste sul fatto che due sono i fini della vita umana, la felicità di questa terra e la beatitudine nell’altro mondo, ovvero la felicità per sempre. In questo contesto Dante sottolinea l’importanza della presenza di un’autorità morale e religiosa cui far riferimento, da lui identificata nel papato. Quindi, unità territoriale in una realtà politica unica e riferimento morale appaiono come la possibilità di garanzia di una condizione che permetta la crescita dell’uomo.