Vorrei riflettere brevemente sull’etimo della parola «cultura». Il fascino di una parola risiede, infatti, nel fatto che essa descrive una storia, racconta una parte dell’avventura umana: non a caso il vocabolo «parola» deriva da «parabola», ovvero racconto. Il verbo latino colo, che è alla base della parola «cultura», sottolinea e descrive il passaggio dell’uomo dalla condizione nomade a quella sedentaria. Il verbo significa «coltivare», «abitare», «venerare». Un popolo che diventa sedentario ha imparato a coltivare la terra, la abita e venera le divinità del luogo. Nel termine «cultura» risiede questo radicamento nelle proprie origini e nella propria terra, senza il quale non è possibile crescere e dare frutti. Da questo radicamento scaturisce la possibilità di trarre linfa vitale, ovvero la possibilità di germogliare, di crescere nel fusto e di dare frutti buoni. Capiamo allora che la cultura non ha a che fare con la conoscenza di tante componenti della realtà, ma deriva da un passato (il terreno in cui siamo cresciuti, la tradizione) e si apre ad una domanda sul presente e sul futuro.
La parola «cultura» coinvolge non solo la sfera della materialità (l’aspetto fisico, concreto, pragmatico dell’uomo), ma anche la componente religiosa, include la questione dell’uomo e del suo rapporto con il destino, ovvero le grandi domande dell’uomo. Potremmo anche affermare che il fenomeno culturale si traduce in una capacità di giudizio sul presente e sulla realtà e in un’ipotesi e in una speranza sul futuro radicata nel presente. Un’incursione nella cultura e nell’arte mondiali farebbe emergere fin da subito il loro carattere religioso e metafisico.