Deliberatamente l’autore la descrive usando chiare allusioni alla Beatrice dantesca.  Tutti i paladini di Carlo Magno la desiderano e vogliono conquistarla. Nel canto I del poema, chiaro richiamo alla selva oscura della Commedia, Sacripante, eroe pagano, vede la donna oggetto dei suoi sogni, sola nel bosco. La donna, incontrandolo, decide di approfittare dell’amore di lui perché le faccia da accompagnatore nel suo viaggio di ritorno nel Katai. Così, lei cerca di persuaderlo che “’l fior virginal così” ha “salvo/ come se lo portò del materno alvo”. Il narratore, però, subito esplicita il suo giudizio: “Forse era ver, ma non però credibile/ a chi del senso suo fosse signore”.

 

Nel canto XII, quando tutti  i cavalieri e i personaggi sono trascinati nel palazzo incantato del mago Atlante attraverso le magie e gli inganni di lui, anche Orlando ivi giunge inseguendo la sua bella. Il narratore, infatti, ci racconta che a Orlando, “come mira alla giovane bella,/ … par colei, per cui la notte e il giorno/ cercato Francia avea dentro e d’intorno”. Allora, Ariosto riprendendo il Dante della Vita nova scrive:

 

Non dico ch’ella fosse, ma parea

Angelica gentil ch’egli tant’ama.

 

Chiara è, qui, la memoria letteraria del sonetto dantesco, appartenente alla Vita nova, “Tanto gentile e tanto  onesta pare”,

ove, come già si è avuto modo di notare, viene cantata l’oggettività della bellezza della donna, specchio dell’onestà, dell’umiltà e della fede di lei. Angelica è allora costruita sulla parodia di Beatrice, già nel nome che richiama l’idea di donna angelo stilnovista.

Nel canto XII Ariosto perfeziona la sua spiegazione della mutata eroina femminile mediante un sottile e calibrato gioco di allusioni al canto V dell’Inferno, al famoso verso in cui la bufera infernale, che mai non ha sosta, “di qua, di là, di giù, di sù… mena” i lussuriosi. Il conte Orlando, infatti, alla ricerca della sua bella, “corre di qua, corre di là”, “di su, di giù va… e riede”.

Il giudizio di Ariosto sul protagonista e sugli altri personaggi confluiti nel palazzo alla ricerca del loro oggetto di desiderio è, allora, chiaro:

 

Tutti cercando il van, tutti gli dànno

Colpa di furto alcun che lor fatt’abbia:

del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno;

ch’abbia perduta altri la donna, arrabbia;

altri d’altro l’accusa: e così stanno,

che non si san partir di quella gabbia…

 

È qui rappresentato il peccato di idolatria: un bene terreno assolutizzato dall’uomo, ricercato come possibilità di risposta alla propria sete di felicità. Del mancato raggiungimento dell’oggetto del proprio desiderio, dell’insuccesso nell’ottenimento della felicità, però, ciascuno accusa gli altri, senza rendersi conto della vanità dell’idolo.

La Francesca del famoso canto V dell’Inferno rimpiazza, così, la Beatrice del Paradiso: profetica anticipazione, ancora, dei tempi moderni, così come già lo sono stati la Mandragola e l’Aminta.