Che sguardo aveva Pirandello sull’uomo? Con che occhi guardava la realtà e i suoi simili?
Nel 1908 Pirandello descrisse la condizione esistenziale dell’uomo nel saggio L’umorismo. L’uomo è sempre fuori chiave, mai al suo posto. Per questo, impaurito dalla paura del vuoto e dell’abisso, ricerca una forma, lui che è sempre privo di forma. E che cos’è la vita?
“La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a tanto che […] non cessi.
Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci […]. Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima, e che è la vita in noi, il flusso continua, […] componendoci una coscienza, costruendoci una personalità. In certi momenti tempestosi, investite dal flusso, tutte quelle nostre forme fittizie crollano miseramente” (L’umorismo).
L’arte antica ha inventato l’eroe granitico, tutto d’un pezzo, fedele ai suoi grandi ideali. L’osservazione ordinaria della realtà, però, porta l’uomo a rendersi conto dell’inconsistenza di tale visione dell’uomo. L’eroe antico nella realtà non esiste. Tutti noi ci attacchiamo ad ideali che, spesso, tradiamo.
È assurdo pensare ad una coerenza dell’io, ovvero ad un’intima connessione tra azione e ideale: il termine «coerenza» ben designa quest’utopistica presunzione – almeno a detta di Pirandello – di far seguire al pensiero l’azione, al proposito il progetto concreto.
Nei momenti di silenzio, quando si è soli e non frastornati dalle cose e dai rumori, l’uomo percepisce quest’inquietudine del vivere e di trovarsi, misero e inconsistente, di fronte all’abisso del mistero. Comprende l’inganno delle maschere, degli atteggiamenti assunti per nascondere il disagio del vivere e coglie la propria precarietà e quasi nullità.
“In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in se stessa la vita, quasi in una nudità arida, inquietante; ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo, […].
Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo [….]. Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro silenzio interiore si profondasse negli abissi del mistero […]. È stato un attimo; ma dura a lungo in noi l’impressione di esso, come di vertigine, con la quale contrasta la stabilità, pur così vana, delle cose: ambiziose o misere apparenze” (L’umorismo).
Tutti noi abbiamo, quindi, una consistenza tragicomica, ovvero il nostro io in alcuni momenti appare fortemente comico e potrebbe destare il riso di chi ci osserva oppure un sorriso benevolo nei più magnanimi.
È la famosa distinzione tra comico e umoristico che Pirandello spiega con l’altrettanto celebre e conosciuta immagine della donna di ottant’anni, tutta imbellettata, vestita all’ultima moda e con i tacchi a spillo:
“vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca; e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili” (L’umorismo).
Ad un primo sguardo, di fronte ad un’immagine siffatta, chiunque si metterebbe a ridere avvertendo l’assurdità della situazione. Il comico consiste per l’appunto in questo «avvertimento del contrario», cioè nella constatazione che una situazione è opposta a quanto noi ci aspetteremmo, constatazione che desta in noi una risata a crepapelle, irrefrenabile e indubbiamente irrispettosa.
Però, nel momento in cui noi riflettiamo sulle ragioni che hanno indotto quella donna a ridursi così e pensiamo al suo desiderio di apparire più giovane, di piacere ancora al marito, il nostro riso si tramuta in un sorriso che abbraccia e comprende le ragioni profonde dell’altro, ovvero l’umorismo o «sentimento del contrario».
Siamo tutti comici o umoristici in particolari momenti della nostra esistenza, cioè siamo inadatti alla circostanza, inadeguati, buffi: semidei che si pongono sul piedistallo di fronte agli altri, per poi precipitare nella melma non appena la solitudine ci permette di lasciare l’insostenibile ruolo.
La gradazione umoristica ha il dono di liberare dalla forma o meglio di abbracciarla mostrando come essa non sia cifra definitiva dell’io, non lo imprigioni in maniera irreparabile. L’apparire in un certo modo ha una ragione d’essere nella storia e nella vita della persona che è ben più complessa di quanto appare.
L’umorismo sa comprendere le ragioni profonde del disagio dell’io. Non sempre, però, l’uomo è capace di guardare gli altri con il rispetto tipico dell’umorismo. Ben più spesso l’io è definito e incastonato da chi osserva in una forma e in un modo di essere.
Pensiamo a tanti personaggi presentati nelle Novelle per un anno, ad esempio a Rosario Chiarchiaro de La patente considerato da tutti come uno iettatore da evitare tanto che egli perde sia la trama di relazioni sociali sia la possibilità di lavorare. Infatti, il punto di vista malevolo dei concittadini l’ha incastonato in una forma, ha ridotto la sua complessità umana ad un unico aspetto che diventa la cifra descrittiva di tutto il personaggio.