Il «Canto notturno di un pastore errante dell’Asia» è una delle migliori sintesi del pensiero di Leopardi sulle domande che animano il cuore dell’uomo. Qualche anno prima di comporre la poesia Leopardi ebbe l’occasione di leggere nel «Journal des savants» gli appunti di viaggio del Barone di Meyendorff nelle steppe dell’Asia centrale, in cui si descrivevano dei pastori che la sera intonavano nenie tristi alla luna. L’immagine dei pastori che si è impressa nell’animo del Recanatese, qualche anno dopo, nel 1830, viene utilizzata per rappresentare quel livello di coscienza dell’uomo che contraddistingue non già il colto e il letterato, bensì l’uomo in sé di ogni tempo e di ogni luogo.
Nasce, così, il «Canto notturno di un pastore errante dell’Asia». Il canto ben si addice a comunicare la dimensione della poesia lirica, focalizzata sull’io del poeta e sulla sua dimensione interiore. L’orizzonte notturno, tanto amato dall’arte romantica, che fa da sfondo al testo, ci permette di porci immediatamente di fronte al cielo stellato, all’infinito, a quelle stelle che non potrebbero saziare, in nessun modo, l’indomito cuore dell’uomo, che sono, comunque, segno di quell’Infinito/Altro a cui l’animo umano anela. Il pastore è errante, in viaggio sempre, un viaggio monotono, e percepisce che un senso ci deve pur essere in questa vita e che Qualcuno lo conosce: è la Luna, rappresentata come figura pontefice, ovvero ponte tra la terra e il cielo, tra l’io che con la propria ragione può arrivare a riconoscere il Mistero e il Mistero stesso.
Con la semplicità che gli è propria, irriso ogni orgoglio, il pastore, di fronte a un ente che è segno di immortalità e di eternità, pone quelle domande che ha nel suo cuore e che sono ridestate dalla contemplazione del bello: «A che vale/ Al pastor la sua vita,/ La vostra vita a voi? dimmi: ove tende/ Questo vagar mio breve,/ Il tuo corso immortale?». Nella seconda stanza Leopardi descrive così l’uomo: «Vecchierel bianco, infermo,/ Mezzo vestito e scalzo,/ Con gravissimo fascio in su le spalle […]/ Corre via, corre, anela,/ Varca torrenti e stagni,/ Cade, risorge». Il richiamo, qui, a Rerum vulgarium fragmenta XVI è più che una semplice eco: «Movesi il vecchierel canuto e bianco/ del dolce loco ov’à sua età fornita/ e da la famigliola sbigottita/ che vede il caro padre venir manco». Nel sonetto anche il Petrarca vede la condizione esistenziale dell’uomo come quella di un uomo, vecchio e stanco, disposto a lasciare tutto, anche la sua famiglia, negli ultimi giorni della sua vita, per recarsi a Roma alla ricerca della Veronica, l’immagine del volto di Cristo effigiata in un’icona bizantina. Questo «vecchierel» che lascia tutto non può non richiamarci la figura dell’Ulisse dantesco che «né dolcezza di figlio, né la pieta/ del vecchio padre, né ‘l debito amore/ lo qual dovea Penelopè far lieta» (Inferno XXVI, vv. 94-96)riuscirono a trattenere dall’«ardore»del viaggio.
Di fronte alla vertigine, di fronte al senso di sproporzione che si fatica a reggere, la tentazione è quella di pensare che il progresso, le nuove acquisizioni tecnico – scientifiche possano risolvere il problema umano: è il mito dello scientismo che tanto imperversava al tempo di Leopardi come imperversa ora; «le magnifiche sorti e progressive» dello scrittore Terenzio Mariani corrispondono, infatti, al neopositivismo contemporaneo ben incarnato nella pubblicità che recita «l’ottimismo è il profumo della vita» (nel cui messaggio è ben chiaro che la ragione per cui si deve essere ottimisti è la possibilità di usufruire di strumenti tecnici sempre più sofisticati, sempre più moderni, impensabili un tempo). Ecco allora la conclusione: «Forse s’avess’io l’ale/ Da volar su le nubi,/ E noverar le stelle ad una ad una,/ O come il tuono errar di giogo in giogo,/ Più felice sarei, dolce mia greggia,/ Più felice sarei, candida luna». Ma il genio di Leopardi, che ha ben compreso la natura del cuore dell’uomo, non si inganna: «O forse erra dal vero,/ Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero». L’uomo in ogni epoca ha cercato di evadere dalla situazione esistenziale contingente in primo luogo vagheggiando un’età felice nel passato o nel futuro, la mitica età dell’oro o il mondo utopico da costruire qui sulla Terra. Lo stesso Leopardi, in gioventù, ha creduto che l’infelicità dell’uomo fosse da attribuire alla situazione storica, alla civilizzazione, all’allontanamento dallo stato di natura. Sulle orme di J. J. Rousseau in gioventù Leopardi credeva che l’uomo antico fosse più felice. Allo stesso modo oggi tanti credono che il male del mondo sia legato al progresso, alla civiltà e magari a chi – l’Occidente – è accusato di aver esportato questa civiltà! (pubblicato su La nuova bussola quotidiana del 10-11-2013)