Il nostro animo può essere paragonato ad un recipiente “capace” di Infinito. Leopardi lo intuisce e conclude che la grandezza della ragione stia nel riconoscimento dell’incapacità dell’uomo a soddisfarsi. Solo la “persuasione di un’altra vita” dà consistenza alle cose.
Pochi autori sono stati così lucidi nel descrivere la natura del nostro animo, assetato di una felicità piena, assoluta, infinita. Esso può essere paragonato ad un recipiente «capace» di infinito (capax è il termine latino per indicare la capacità di contenere), perché non è mai colmo: puoi, infatti, riempirlo di bevande differenti in continuazione, ma il liquido non giungerà mai all’orlo del contenitore. Quante volte facciamo l’esperienza di avere apparentemente colmato il nostro desiderio di felicità, ma subito dopo l’esperienza dell’amarezza e della tristezza si fa largo. Questa peculiarità è tipica soltanto dell’uomo. Leopardi scrive nello Zibaldone «Tutto è o può essere contento di se stesso eccetto l’uomo, il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella dell’altre cose». Noi uomini siamo «miseri inevitabilmente ed essenzialmente per natura nostra […]. Cosa la quale dimostra che la nostra esistenza non è finita dentro questo spazio temporale come quella dei bruti». Nella stessa pagina del testo miscellaneo Leopardi arriva ad affermare che «una delle grandi prove dell’immortalità dell’anima è la infelicità dell’uomo paragonato alle bestie che sono felici o quasi felici». Queste riflessioni, poste quasi all’inizio del suo diario filosofico ed esistenziale, richiamano alla mente la distanza tra il pastore e il gregge nel «Canto notturno di un pastore errante dell’Asia»: il pastore è assalito dal tedio, quando giace oziando, mentre il gregge non sembra essere angustiato da nessun pungolo, non sembra conoscere la noia.