Tanta letteratura del Novecento documenta questa difficoltà o impossibilità a raggiungere la verità, il Mistero della realtà. Se non c’è una verità o se essa non è da noi conoscibile, non è possibile una reale comunicazione tra gli uomini,

perché non si può pensare di mettere in compartecipazione una verità che sia portata da uno dei due interlocutori o che sia derivata da altri. Quando la verità è negata alle radici, ognuno continua a camminare nel proprio  tunnel di vetro trasparente in cui potrà vedere gli altri, senza, però, entrare realmente in contatto con loro. Manca, infatti, anche solo il presupposto iniziale che si faccia un tentativo per trovare un percorso comune.

La sfiducia nell’esistenza della verità e il conseguente relativismo sono in gran parte causa della percezione della solitudine che prova l’uomo del Novecento. Se la produzione letteraria dell’Ottocento era attraversata dall’ansia del vero (parola chiave, tanto per addurre qualche esempio, in Manzoni, in Leopardi, in Verga), nel Novecento tutti i lanternoni sono spenti, per dirla con Pirandello, e l’uomo rimane con il suo lanternino, girando nel buio come una lucciola.

Con altra immagine potremmo affermare che la realtà è come se fosse vista da uno specchio in frantumi che riflettesse tante immagini differenti e deformate. Così accade, ad esempio, nell’opera teatrale pirandelliana Così è se vi pare. In un paesino sono da poco giunti il signor Ponza con la moglie e la suocera di lui, la signora Frola.

Questa afferma di essere la madre della moglie di Ponza e che il genero, geloso, non le permette di vedere la figlia. Per Ponza, invece, la sua prima moglie era la figlia della signora Frola, ma quando morì, lui si risposò e la mamma impazzì, credendo di vedere sempre nella nuova moglie sua figlia.

Il lettore e lo spettatore non verranno mai a sapere quale sia la verità, neppure alla fine dell’opera quando suocera e genero sono convocati davanti al prefetto perché si possa conoscere la verità. Con lo sconcerto di tutti la signora Ponza affermerà: «Per me, io sono colei che mi si crede.

Il relativismo gnoseologico, ovvero l’impossibilità di conoscere quale sia la verità, lascia l’uomo solo in mezzo al buio caotico dell’esistenza. Non è possibile farsi vera compagnia se non si distinguono la strada  e la meta.

La noia ovvero l’incapacità di creare un legame

Per lo scrittore A. Moravia (1907-1990), invece,  la realtà è inadeguata e insufficiente. Quando si elimina il Mistero, niente sembra valere la considerazione dell’uomo. Così si vede, ad esempio, nel romanzo La noia in cui un pittore di nome Dino si lega sentimentalmente alla giovane Cecilia.

Il rapporto tra i due si traduce in un rapporto concepito esclusivamente dal punto di vista sessuale, senza alcuna condivisione affettiva, intellettuale ed esistenziale. Dino non riesce a creare alcun legame con la sua compagna.

Per quanto lui si ricorda, ha sempre sofferto di noia. Questa non è, però, da intendersi come il contrario del divertimento e della distrazione. Per Leopardi la noia è il sentimento più sublime che possa provare l’essere umano, riempie gli spazi che sono liberi dal piacere e dal dolore, è il desiderio della felicità allo stato puro, ovvero è rendersi conto che il nostro cuore desidera l’infinito e non può che essere soddisfatto che da esso. Insomma il Recanatese attribuisce al sentimento della noia un significato altamente positivo. Per Dino, invece,

 

la noia […] è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità  della realtà. Per adoperare una metafora, la realtà […] ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, ad un dormiente, in una notte d’inverno […]. Oppure la […] noia rassomiglia a un’interruzione frequente e misteriosa della corrente elettrica: un momento tutto è chiaro ed evidente […], un momento dopo non c’è più che buio e vuoto. Oppure, terzo paragone, la […] noia potrebbe  essere definita una malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina.

 

Per Dino la realtà è assurda, perché è incapace di persuaderci della sua reale esistenza. La noia «non è che incomunicabilità», impossibilità a creare un legame con le persone e con le cose. Il pittore comprende che «la noia è impossibilità pratica a stare» con se stesso, la sola persona al mondo di cui non ci si può disfare in alcun modo.

Il sesso è l’unico tentativo di Dino di comunicare, mentre sua madre comunica con lui solo con il denaro, che è il suo credo, assieme  alla «forma, la quale tra l’altro» impone «di essere praticante e, comunque, di rispettare le cose della religione». Dino è cresciuto, così, da una madre che non crede in niente.

L’educazione che ha accompagnato Dino in famiglia sembra essere paradigmatica della situazione familiare contemporanea: benessere economico, status sociale, svuotamento della tradizione religiosa, perbenismo non possono sostenere la crescita di un figlio che si trova, ben presto, in una «terra  desolata».

IL RITORNO DELL’UOMO SCIMMIA

Per Montaigne siamo come le api

Posizioni di stampo materialistico hanno accompagnato tutta la storia dell’umanità. Nell’antichità, però, lo scrittore latino Lucrezio (98 a. C.- 55 a. C) e i filosofi greci Democrito (460 a. C. – 360 a. C.) e Epicuro (341 a. C.- 271 a. C.) sono delle eccezioni nel panorama filosofico e letterario, rappresentano una netta minoranza. Nell’epoca moderna il materialismo diventa dominante, anche se non viene sempre teorizzato esplicitamente.

Nel Cinquecento, nei Saggi, lo scrittore e filosofo francese Montaigne (1533-1592) apre la strada alla demistificazione della centralità dell’uomo nell’universo. Tra uomo e bestia non ci sarebbe altra differenza che il primo vuole prevalere e sopraffare l’altra. Non è una differenza sostanziale dovuta alla presenza dell’anima nell’uomo. L’uomo è come le api, ma peggio di tutti gli animali nell’uso della violenza, nel tradimento, in molti vizi che compaiono solo in lui. Dunque,

chi lo ha convinto che questo meraviglioso movimento della volta celeste, la luce eterna di queste fiaccole rotanti così vivacemente sul suo capo, i movimenti spaventosi di questo mare infinito, siano predestinati e continuino per tanti secoli per la sua utilità e per suo servizio? È possibile immaginare niente di così ridicolo che questa miserabile e debole creatura, la quale non è neppure padrona di sé, esposta alle ingiurie di tutte le cose, si dica padrona e dominatrice dell’universo? Montaigne

Subito dopo Montaigne si chiede per quale ragione l’uomo si creda l’unico in grado di cogliere e capire la bellezza del creato. Lo scrittore ha poco prima affermato di non mettere in dubbio il Cristianesimo, in realtà lo accetta solo nella sua forma astratta e disincarnata e dubita di quanto è scritto nell’Antico Testamento (basti pensare al libro della Genesi) e nel Nuovo Testamento. Infatti Montaigne si chiede più volte dove stia scritto che l’uomo valga più delle altre creature  quando Gesù stesso ha detto:

Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro?  E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli dei campi: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l’erba del campo che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi,  gente di poca fede?

Ancora Montaigne si domanda: «Poveretto, che cosa ha l’uomo che sia degno di una tale superiorità?». La presunzione umana si manifesta in tante forme. Montaigne scrive: «Quando io mi diverto con la mia gatta, chi sa se essa passa il suo tempo con me più che io non faccia con lei». Oppure, ancora, pensa che la difficoltà di comunicazione dell’uomo con le bestie non sia dovuta probabilmente ad esse, ma all’uomo. Scrive ancora:

Constatiamo a sufficienza nella maggior parte delle loro opere quanta superiorità hanno gli animali su noi e quanto la nostra arte è debole ad imitarli.

L’uomo comunica con i cani, come i cani comunicano con noi. Si tratta di due forme di comunicazione distinte.

Con altro linguaggio, con altri appellativi noi comunichiamo con essi che non con gli uccelli, coi porci, i buoi, i cavalli, e mutiamo di linguaggio secondo la specie.

Il discorso di Montaigne, argomentato con situazioni ed esemplificazioni che a lui paiono inconfutabili, approda ad una conclusione:

Noi non siamo né al disopra né al disotto del resto; tutto quello che è sotto il Cielo […] è sottoposto ad una legge e ad una sorte uguale. […] Non c’è alcuna ragione di pensare che le bestie facciano per istinto naturale ed imposto le stesse cose che noi facciamo di nostra volontà ed ingegno. Da uguali risultati dobbiamo trarre uguali facoltà, e confessare per conseguenza che quello stesso ragionamento, quella stessa strada che noi prendiamo per agire è anche quella degli animali.

Che differenza c’è, dunque, tra l’uomo e i ragni, i maiali e le api? Nessuna, se non per il fatto che «non c’è animale al mondo capace di tante offese quanto l’uomo».

[1] Cfr M. de Montaigne, Saggi, cit., p. 489.