Per condurre un’indagine sull’animo umano e sul suo desiderio innato di felicità è opportuno rifarsi al canto filosofico che meglio sintetizza il pensiero di Leopardi sul nostro cuore: il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Qualche anno prima di comporre la poesia Leopardi ebbe l’occasione di leggere nel “Journal des savants” gli appunti di viaggio del Barone di Meyendorff nelle steppe dell’Asia centrale, in cui si descrivevano dei pastori che la sera intonavano delle nenie tristi alla luna. L’immagine dei pastori che si è impressa nell’animo del Recanatese, qualche anno dopo, nel 1830, viene utilizzata per rappresentare quel livello di coscienza dell’uomo che contraddistingue non già il colto e il letterato, bensì l’uomo in sé di ogni tempo e di ogni luogo.
Nasce, così, il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Il canto ben si addice a comunicare la dimensione della poesia lirica, ovvero focalizzata sull’io del poeta e sulla sua dimensione interiore. L’orizzonte notturno, tanto amato dall’arte romantica, che fa da sfondo al testo, ci permette di porci immediatamente di fronte al cielo stellato, all’infinito, a quelle stelle che non potrebbero saziare, in nessun modo, l’indomito cuore dell’uomo, che sono, comunque, segno di quell’Infinito / Altro a cui l’animo umano anela. Il pastore è errante, in viaggio sempre, un viaggio monotono, sempre uguale a se stesso, e percepisce che un senso ci deve pur essere in questa vita e che Qualcuno lo conosce: è la luna, rappresentata come figura pontefice, che fa da ponte tra la terra e il cielo, tra l’io che con la propria ragione può arrivare a riconoscere il Mistero e il Mistero stesso.