Che cosa significa educare? In un’epoca come la nostra in cui siamo bombardati dal trash, come è possibile essere educati al bello? Che consigli si possono dare? Esiste un percorso per imparare a cogliere il bello? Innanzitutto possiamo partire dalla considerazione che chiedersi che cosa significhi educare al bello vuol dire domandarsi cosa significhi educarsi al bello. Non c’è una ricetta per il bello. Invece è corretto porsi la domanda del bello, desiderare di trovare la bellezza, di incontrarla, di rappresentarla, di comunicarla. La prima questione da affrontare è che cosa sia l’educazione. Quando offriamo ad un bimbo o ad un ragazzo i pezzi di un puzzle, se desideriamo che lui possa utilmente sfruttarli, dobbiamo anche offrirgli l’immagine da ricostruire. Solo allora, probabilmente, il bambino sarà messo in azione nella speranza di poter ricomporre il puzzle. Spesso, invece, gli insegnanti si pongono come informatori che forniscono delle nozioni, ma si disinteressano totalmente del compito educativo, che richiede il legame tra il particolare presentato e il tutto, ovvero il suo significato. Fornire ai ragazzi più pezzi del puzzle non servirà loro a capire maggiormente la realtà, nel caso in cui manchi l’immagine da ricostruire. Ecco un altro esempio.
È come se ad un bimbo si presentassero tante mamme tra cui scegliere: qualcuno potrebbe pensare che il bimbo sarebbe contento di questa libertà. La realtà dei fatti ci mostrerebbe, invece, il bambino piangere e scalpitare alla ricerca della sola figura, la vera mamma, che possa consolarlo. Si può crescere e svilupparsi solo in un rapporto preciso, solo nella dipendenza da un legame. E ancora, quando un bimbo entra con i genitori in una stanza frequentata e affollata, se leggerà sul loro volto la sicurezza e la tranquillità, anche lui entrerà in quell’ambiente con maggiore serenità e incontrerà le persone ivi presenti probabilmente con minore paura o angoscia. Se, al contrario, il bimbo intravedrà nello sguardo di mamma e papà il dubbio e lo sconcerto, molto probabilmente si abbandonerà a pianto e strilla.
C’è un’immagine nel canto III dell’Inferno in cui Dante presenta l’azione educativa quando Virgilio lo prende per mano con lieto volto e lo introduce dentro “a le secrete cose”. Leggiamo, infatti:
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond’io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Un discorso non può avvincere e convincere, Dante non avrebbe intrapreso il viaggio senza la compagnia e la guida lieta e rassicurante di Virgilio.
C’è un’altra immagine dantesca che, però, ci viene in soccorso per capire chi davvero sia l’educatore. Nel canto I del Paradiso Dante vede Beatrice alla sua sinistra guardare il cielo. L’amata non indica se stessa al poeta, ma qualcosa d’altro, un Bene maggiore. L’educatore, colui che guida e che è autorevole, non rimanda mai a sé come risposta ai problemi della vita, ma comunica altro, indirizza al Bene e conquista gli altri proprio perché non avvinghia a sé. Vedendo Beatrice rivolta al cielo, anche Dante è indotto a fare altrettanto.
Educare al bello. Abbiamo cercato di chiarire la questione dell’educazione. Ma che cosa significa educare al bello? La domanda potrebbe essere affrontata chiedendosi a che cosa si possa educare se non al bello e al vero. La vera educazione è educazione al bello e al vero. S. Paolo scrive: “Vagliate tutto, ma trattenete quello che è buono”. Se non educhiamo al bello e al vero, a che cosa educhiamo? Dobbiamo recuperare la domanda di bello e vero, quella domanda che è innata nel nostro cuore. In un’epoca come quella contemporanea che esalta il brutto, il trash, l’immorale, l’educazione al bello costa fatica. Più facile è oggi adattarsi al brutto ed evitare l’educazione e il sacrificio.
Educazione e talento
La vera educazione dovrà mirare a far esaltare il talento di ciascuno. I talenti, poi, diventano davvero fruttuosi se posti al servizio del tutto, dell’ideale, dell’universale. Il frutto del talento (che è dono regalato dal Signore) sarà, così, non solo il compimento di sé, ma anche del prossimo e dell’opera di Dio. La vocazione dell’artista è, in tal senso, molto particolare, come ha evidenziato Giovanni Paolo II nella “Lettera agli artisti” nel 1999. L’artista è artefice e realizzatore di arte, di bellezza, quindi, in un certo senso, riproduttore della bellezza del creato. Ognuno di noi ha un talento, una vocazione, una missione. Così, per Dante il compito di cui si sente investito è la testimonianza della verità vista e incontrata. La consapevolezza di una simile missione, però, lo spaventa. Tutti noi siamo, talvolta, tentati di rifiutare la missione che c’è stata assegnata, adducendo la scusa di non essere all’altezza, proprio come Dante all’inizio dell’Inferno. Virgilio, però, lo persuaderà a intraprendere il viaggio nel canto II rivelandogli che è voluto dal Cielo, ovvero che il suo operato è strumento e cooperazione del disegno del Cielo. Dopo alcuni giorni di viaggio nel mondo ultraterreno, la tentazione di non obbedire al compito assegnatogli si ripresenta a Dante. Accade nel canto XVII del Paradiso quando Dante incontra Cacciaguida che lo investe della missione di raccontare il viaggio ultraterreno.