Dobbiamo avere rispetto di questo “religioso” sentimento di insoddisfazione e di inquietudine, di questa tristezza che deriva da una tensione inesausta all’infinito, alla compiutezza e alla perfezione, di quel sentimento che Leopardi definisce laconicamente col termine “noia”.
Essa è
“in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani,… il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile della spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo umano e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose di insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e nobiltà, che si vegga della natura umana” (Pensieri, LXVIII).
La noia è il sentimento che denuncia in maniera inconfondibile la statura umana, l’aspirazione all’Infinito del nostro animo, la sua incapacità di accontentarsi di piaceri finiti e limitati, la necessità di incontrare un piacere infinito che corrisponda al proprio cuore.